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Home - Approfondimenti - Analisi - Il ‘secondo pilastro’ esclude i lavoratori atipici

Il ‘secondo pilastro’ esclude i lavoratori atipici

20 Dicembre 2004
in Analisi

di Cristina Tajani – Dipartimento di Studi del Lavoro – Università di Milano

1. In vista dei decreti attuativi che renderanno effettiva la riforma pensionistica del Governo Berlusconi, l’ormai legge 243/2004 e della consultazione delle parti sociali che dovrebbe precedere l’emanazione dei decreti, ci sembra utile proporre un approfondimento su un aspetto particolarmente problematico dell’attuale riforma e di quelle che l’hanno preceduta.

Si tratta delle prospettive pensionistiche dei lavoratori atipici, siano questi parasubordinati o subordinati. Nella stessa ipotesi del legislatore, infatti, il progettato “alleggerimento” della previdenza obbligatoria avrebbe dovuto accompagnarsi ad un “appesantimento” dell’altra, quella costituita dalla previdenza complementare. Se non fosse che l’accesso alle forme di previdenza complementare di origine negoziale (oltre a sollevare problemi rispetto al rendimento dei fondi e della scarsa adesione dei potenziali aderenti) è spesso preclusa ai lavoratori atipici anche con rapporto di lavoro subordinato (lavoratori a termine, in somministrazione, contratti di inserimento etc…) pur dove il contratto collettivo di riferimento preveda l’istituzione di un fondo pensione di categoria. Inoltre, l’obbligatorietà (attraverso il meccanismo del silenzio-assenso) del conferimento del Tfr al fondo pone ulteriori problemi applicativi in riferimento ad i lavoratori atipici oltre a modificare l’ispirazione originaria dei fondi collettivi, che non costituirebbero più mera espressione di autonomia (adesione volontaria), bensì parte necessaria dell’intero sistema articolato su due gambe comparabili e sommabili. Un sistema così immaginato non può non porsi in maniera radicale il problema dell’accesso alle forme di previdenza complementare dei lavoratori atipici che rimarrebbero altrimenti esclusi da uno dei pilastri del sistema che, tutto intero, dovrebbe rispondere ai bisogni previdenziali di rilevanza costituzionale.


Non sembra, infatti, che l’intervento legislativo in direzione dell’obbligatorietà del conferimento del Tfr e dell’adesione alla previdenza completare risolva adeguatamente il problema dell’universalità nel godimento di quello che, secondo alcuni (Treu 2004) rappresenta uno specifico diritto: il diritto alla previdenza complementare .


La recentissima riforma pensionistica (l. 243/2004), operata dall’attuale Governo Berlusconi dopo una lunga gestazione, sembra aver assunto il Tfr quale pietra angolare del finanziamento dei fondi pensione. Questo finisce per configurare la previdenza complementare come un problema del lavoro dipendente tradizionale, con esclusione delle crescenti tipologie di lavoro non standard, nonostante le preoccupazioni rispetto a queste categorie di lavoratori espresse da più parti nei confronti del legislatore (vedi infra Covip 2003, CNEL 2004). Questo pone un problema sia nei confronti del lavoro autonomo, il cui futuro pensionistico è piuttosto gramo, sia per quanto riguarda i lavoratori atipici subordinati, mettendo in discussione la capacità dell’intero sistema di previdenza sociale di far fronte alle funzioni costituzionalmente riferitegli.


 


2. Una lunga sequenza di riforme previdenziali, dalla legge n. 421/1992 e d.lgs. n. 124/1993 al d.lgs. 168/2001, passando per la l. n. 335/1995 ed il d.lgs. 47/2000, costituisce il quadro giuridico di riferimento che regola la previdenza pensionistica privata nel nostro sistema di previdenza sociale fino alla recente riforma del Governo Berlusconi (l. 243/2004).


Sebbene questa sequenza, a giudizio anche dei giuristi, sia ben lungi dal testimoniare una univocità di impostazione ed evoluzione per quanto riguarda l’ascrivibilità della previdenza privata nell’alveo dei bisogni previdenziali di rilevanza costituzionale (art. 38 Cost.), è invece univoca nel determinare il passaggio definitivo del nostro sistema pensionistico dal metodo retributivo a quello contributivo. Questo passaggio ha segnato la progressiva diminuzione del tasso di sostituzione tra pensione e reddito da lavoro riferito alla previdenza obbligatoria, investendo così di un ruolo centrale la previdenza complementare al fine del mantenimento del tenore di vita attiva al momento del pensionamento. È così che, con il progressivo assottigliamento delle erogazioni pensionistiche obbligatorie, la previdenza privata (seppur con declinazioni differenti tra le forme di previdenza complementare di origine negoziale collettiva e quelle di previdenza privata individuale) trova legittima cittadinanza nel sistema di previdenza sociale del nostro ordinamento.


Prima di entrare nel merito del problema degli atipici, è utile dare una rapida rilettura alla storia della previdenza complementare così come immaginata, nel corso degli anni, dal nostro legislatore.


Il processo di riforma del sistema pensionistico in direzione di un sistema misto (pubblico/privato) veda la sua prima tappa con le riforme Amato e Dini dei primi anni ’90. Sono, infatti, i provvedimenti legislativi di quegli anni (legge n. 421/1992 e legge n. 335/1995) che istituiscono un sistema di previdenza complementare privata ispirata ai principi di sussidiarietà, complementarietà funzionale delle prestazioni, autonomia collettiva nell’istituzione dei fondi e libertà individuale nell’adesione alle stesse forme di previdenza complementare. Inoltre, i fondi pensione di origine negoziale, così come i cosiddetti “fondi aperti”, basano il loro funzionamento su un criterio di capitalizzazione e corrispettività delle prestazioni.


Questo disegno originario a “due pilastri” ricomprende la previdenza pubblica obbligatoria e la previdenza complementare (basata su fondi pensione chiusi ad adesione volontaria) entrambe nell’alveo dei bisogni previdenziali di rilevanza costituzionale. Il legislatore del 1992-93 e del 1995 ammette e regolamenta anche le forme di previdenza individuale ma al di fuori della rilevanza costituzionale (non si tratterebbe di risparmi previdenziale, ma di altra forma di risparmio). La previdenza individuale sarebbe così destinata alla creazione di un reddito aggiuntivo e non alla salvaguardia del tenore di vita attiva (bisogno, questo, corrisposto dalla previdenza pubblica obbligatoria e da quella complementare volontaria).


Sono invece le riforme del 1999 e del 2000 (legge n. 133/1999 e d.lgs. n. 47/2000) che introducono il cosiddetto “terzo pilastro” individuale nel sistema di previdenza sociale. Gli ultimi provvedimenti legislativi del 2004 (l. 243/2004 del Governo Berlusconi), proponendo l’equiparazione delle forme previdenziali complementari di origine negoziale con quelle ad adesione individuale (fondi aperti) di fatto pongono la previdenza individuale sullo stesso piano di quella negoziale.


L’istituzione di un sistema previdenziale fondato sulla complementarietà funzionale delle prestazioni tra previdenza pubblica obbligatoria e previdenza complementare volontaria ha posto, per la prima volta in maniera urgente, il problema della “copertura” delle prestazioni pensionistiche complementari rispetto alla platea totale dei lavoratori. Dopo un decennio dalla sua istituzione, infatti, il sistema di previdenza complementare è ben lontano dal coprire tutti i suoi potenziali fruitori, come spesso ha sottolineato la stessa Covip (Covip 2003), mentre un numero di lavoratori sempre crescente (i lavoratori cosiddetti “atipici”) resta escluso dalla possibilità di aderire a forme di previdenza complementare proprio a causa della discontinuità dell’impiego.


 


3. Non è di secondaria importanza, alla luce della progressiva diminuzione del tasso di sostituzione tra pensione e reddito da lavoro prodotta dalle riforme previdenziali dell’ultimo decennio, il problema relativo alla copertura delle forme di previdenza complementare, che, secondo molti osservatori, risente di un orientamento consolidato. Si tratta dell’orientamento che continua a considerare termine di riferimento esclusivo il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e solo nel suo effettivo svolgimento, quale caratterizzato dal perdurare dello scambio fra prestazione/retribuzione (Carinci 2004).


 



Le simulazioni effettuate dalla Covip (Covip 2003) su un dipendente privato con 60 anni di età e 35 di contributi, aderente ad un fondo negoziale con un’aliquota contributiva pari al 9,25% ed un rendimento del 2,5% (al netto delle spese amministrative) mostrano il seguente andamento del tasso di sostituzione:



































 


2000


2010


2020


2030


2040


2050


previdenza pubblica obbligatoria


67,3


67,1


56


49,6


48,5


48,1


previdenza privata


0


4,7


9,4


24,5


16,7


16,7


totale


67,3


71,8


65,4


64,1


65,2


64,8


 


 


Sono ancora molti i Fondi pensione negoziali, infatti, il sui statuto non prevede l’adesione al Fondo da parte dei lavoratori con contratti diversi dal contratto “tipico” a tempo indeterminato o dal contratto a tempo determinato di durata superiore ai sei mesi.


Il vulnus legislativo e della contrattazione riguardante la posizione dei lavoratori atipici rispetto alla previdenza complementare è reso più profondo dal varo della legge delega n. 30/2003 e del d.lgs. n. 276/2003. Nell’intenzione del legislatore, infatti, la moltiplicazione di contratti non standard avrebbe dovuto compensare la minor tutela nel rapporto con una maggiore protezione sul mercato, assicurata sia da servizi di collocamento e formazione, sia da garanzie di continuità del reddito e di carriera previdenziale. Non sembra che ciò sia avvenuto “con un vuoto che finisce per essere riprodotto ed enfatizzato dalla difficile spendibilità dei fondi collettivi per i lavoratori assunti non con il contratto tipico di lavoro a tempo indeterminato, ma con un qualche contratto atipico: tale giuridicamente ma non socialmente, perché proprio quel che rimane marginale per l’ordinamento tende a divenire normale mezzo di entrata, e non di rado di permanenza, sia pur a singhiozzo, nel mercato del lavoro”, per usare le parole di un giurista come Carinci.


D’altro canto questa esclusione dei lavoratori atipici (che spesso significa esclusione delle classi anagrafiche più giovani) dall’accesso alle forme di previdenza complementare se letta alla luce delle direttive comunitarie sul divieto di discriminazione in materia di politiche sociali e previdenziali (2000/78/CE; 2000/43/CE) non trova alcuna giustificazione.


È però necessario ricordare che qualche passo in direzione di una maggiore inclusione dei lavoratori atipici nel sistema di previdenza complementare è stato mosso: alcuni Statuti di Fondi negoziali prevedono già l’adesione di tali lavoratori, mentre altri stanno apportando modifiche per ricomprenderli, anche sulla scorta di input provenienti dalla contrattazione. Gli statuti di Fondi importanti come Cometa (metalmeccanici) e Fonchim (chimici) prevedono l’adesione dei lavoratori a termine con contratto di almeno 6 mesi, ma non fanno menzione di altre forme contrattuali.


Altri esempi che vanno in questa direzione non mancano, seppur non risolutivi del problema generale. Si pensi al contratto collettivo degli operatori telefonici Mediatel in collaborazione coordinata e continuativa (agosto 2000) in cui per la prima volta, a lavoratori con questo tipo di contratto, tenuto conto delle vigenti disposizioni in materia di previdenza complementare, a fronte di una loro libera adesione ad un fondo pensione aperto (vedi infra la problematica dell’adesione a fondi aperti), l’azienda si impegna a versare una quota annuale pari a quella pagata dal proprio collaboratore fino ad un massimo del 1% del reddito lordo annuale percepito. Ancora, con riferimento ad un CCNL di recente rinnovo come il contratto dei Tessili del 2004, le parti stipulanti l’accordo si impegnano a far si che il regolamento del Fondo previdenziale di categoria venga modificato per consentire l’adesione dei lavoratori a tempo determinato.


 


4. L’interruzione del rapporto di lavoro, anche per causa fisiologica come nel caso del rapporto a termine, costituisce una fattispecie di cessazione dei requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare. In questo caso valgono le opzioni stabilite dall’art. 10 del D.lgs 47/2000 che stabilisce, in caso di cessazione dei requisiti, che lo statuto del fondo pensione debba inderogabilmente consentire (stabilendone misure, modalità e termini di esercizio) alcune opzioni consistenti nel riscatto della posizione individuale oppure nel trasferimento presso un’altra forma pensionistica privata. La portabilità della posizione di previdenza complementare del lavoratore a termine da un fondo negoziale ad un altro è, dunque, accertata. Se non fosse che il problema perde di rilevanza nell’incontro con la realtà: infatti, come già specificato, sono numericamente limitate le tipologie contrattuali ammesse dagli statuti dei fondi pensione.


Diventa allora interessante indagare un altro aspetto della cosiddetta “portabilità dei contributi”. Se cioè lo stesso lavoratore aderente ad un fondo negoziale chiuso abbia facoltà di trasferire – trascorso il previsto periodo minimo di permanenza – la propria complessiva posizione accantonata ad un fondo aperto. Questo nodo diventa fondamentale nel caso di lavoratori a tempo determinato che abbiano versato i contributi in un fondo collettivo il cui regolamento permetta la loro adesione, e che, al termine del rapporto, vogliano dare continuità ai versamenti previdenziali. C’è da domandarsi se tale passaggio porti con sé l’obbligo aziendale di versare il contributo e la quota di Tfr, non più al vecchio, ma al nuovo fondo. Poiché nemmeno i giuristi sono d’accordo su questo punto sarebbe opportuno che il legislatore si pronunci apertamente per una portabilità complessiva, cioè tale da rendere irrilevante il mutamento del destinatario. Questo anche per ammortizzare quel che potrebbe essere un effetto negativo di tale limite rispetto alla mobilità imposta dalle trasformazioni del mercato del lavoro (anche alla luce dell’applicazione del d.lgs. 276/2003).


Un ulteriore problema connesso all’intermittenza del rapporto di lavoro ed alle sue ripercussioni sul rapporto di previdenza complementare è quella che il termine di riferimento è dato non solo dal lavoratore tipico ma da tale lavoratore nello stato a sua volta tipico di un rapporto in pieno svolgimento. Esiste, cioè, una forma di flessibilità del lavoro dovuta ai processi di trasformazione dell’impresa (Cigs, mobilità) che non è garantita sul piano della previdenza complementare.


Per esempio il periodo di sospensione non accompagnato da contribuzione datoriale, come nel caso della cassa integrazione guadagni rimane scoperto. Il problema potrebbe essere superato qualora venisse meno la preclusione a sopperire in via volontaria, ipotesi ammessa nella disciplina della previdenza obbligatoria. Tale preclusione sembra essere dotata di una più ampia valenza e ricaduta, perché agisce anche nel caso di una cessazione del rapporto di lavoro, laddove l’interessato non voglia riscattare o trasferire la propria posizione.


D’altro canto preoccupazioni per la posizione dei lavoratori atipici nel quadro legislativo della previdenza complementare sono state espresse recentemente anche dal Cnel (Commissione per le politiche del lavoro e le politiche sociali) in un commento al d.d.l. 2155-B/C (Cnel 2004):


“Con un mercato del lavoro improntato alla flessibilità tipologica dei contratti, vanno trovate soluzioni che consentano una continuità di accumulo nei fondi pensionistici integrativi, così da consentire una prestazione compensativa (parzialmente) del trattamento pensionistico obbligatorio in progressiva riduzione.”


Qui di seguito sono riportate alcune simulazioni del Cnel-Mefop (Cnel 2004) che non tengono conto dell’innovazione anagrafica introdotta dalla legge delega del 2001, ma che contemplano la corresponsione del Tfr ad un Fondo pensione per effetto della l. 243/2004. La simulazione prevede una vita lavorativa composta da una prima parte in cui il rapporto di lavoro si svolge attraverso una tipologia “atipica”, ed una seconda parte di impiego subordinato a tempo indeterminato.


 


Ipotesi di lavoratore che aderisca al sistema contributivo con Fondo Negoziale, che abbia maturato 31 anni di contribuzione di cui 6 come collaboratore coordinato e continuativo (ovvero a progetto) e 25 come lavoratore dipendente.


























Età di prima occupazione


età pensionamento


pensione obbligatoria


pensione complementare (TFR+Contributi)


Pensione Supplementare (6 anni di co.co.co.)


Totale


32


57


33,58%


10,32%


4,00%


47,90%


35


60


36,29%


11,01%


4,32%


51,63%


 


Ipotesi di lavoratore che non aderisca ad un fondo negoziale, ma il cui TFR venga devoluto per effetto della l. 243/2004 ad un Fondo pensione e che abbia maturato 31 anni di contribuzione di cui 6 come collaboratore coordinato e continuativo (ovvero a progetto) e 25 come lavoratore dipendente.


























Età di prima occupazione


Età di prima occupazione


Età di prima occupazione


pensione complementare (TFR+Contributi)


 Pensione Supplementare (6 anni di co.co.co.)


Totale


32


57


33,56%


7,71%


4,00%


45,29%


35


60


36,29%


8,22%


4,33%


48,84%


 


Altri studi ancora evidenziano la posizione problematica dei lavoratori atipici (spesso giovani) rispetto alle forme di previdenza complementare.


Il Rapporto annuale Censis sulla situazione sociale del paese del 2003 (Censis 2003) evidenzia quale sia l’atteggiamento dei lavoratori atipici rispetto alla previdenza complementare in un apposito capitolo intitolato significativamente “L’irragiungibile pensione dei giovani”.


Il 41% degli atipici più giovani ritiene che gli strumenti di previdenza complementare potrebbero essere interessanti se accompagnati da un’incentivazione fiscale dei redditi più bassi, mentre il 33,6% sottolinea che tali strumenti sono di fatto incompatibili con l’instabilità lavorativa e dei redditi che difficilmente consentono di fronteggiare il piano dei versamenti.


 


Opinione dei lavoratori atipici sugli strumenti di previdenza complementare, per età. (Valori %)


 



































 


Da 20 a 29 anni


Da 30 a 39 anni


Totale


Non sono interessanti perché l’instabilità lavorativa e dei redditi difficilmente consente di fronteggiare i piani di investimento


33,6


28,4


30,9


Potrebbero essere interessanti se fosse attivata un’incentivazione fiscale per i bassi redditi


41,0


36,7


38,9


Sono indispensabili per integrare la pensione pubblica


23,7


33,4


28,6


Altro


1,7


1,5


1,6


Totale


100,0


100,0


100,0


 


Osservazioni preoccupate rispetto all’inadeguata partecipazione dei giovani alle forme di previdenza complementare sono segnalate dalla stessa Covip. In una pubblicazione dedicata specificatamente alla problematica adesione dei giovani (spesso inseriti nel mercato del lavoro con contratti “non standard”) promossa dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip 2003) si legge:


“Nonostante i grandi sforzi il numero totale degli iscritti ai fondi pensione è ancora deludente: sono circa 2 milioni a cui si aggiungono 200.000 polizze di assicurazione vita secondo i nuovi piani individuali. Rapportato alle forze di lavoro gli iscritti alla previdenza complementare sono poco più del 10%, l’11% dei dipendenti e l’8% degli autonomi. Mancano però soprattutto quelli che ne hanno più bisogno e soprattutto i giovani. L’identikit dei lavoratori più propensi ad iscriversi a un fondo pensione chiuso o aperto o che sono già iscritti ad un fondo è il seguente: sono dirigenti, tra i 40 ed i 49 anni, hanno un livello di istruzione universitario, sono uomini, vivono nel Centro-Nord, ed appartengono alla classe di reddito più alto. Le categorie meno interessate ad un fondo pensione e meno iscritte sono: gli esercenti, i giovani tra i 18 ed i 29 anni con un grado di istruzione di livello elementare o medio, le donne, gli abitanti del Sud e delle Isole e le fasce più basse di reddito.”


Alla luce di queste ultime considerazioni, appare evidente che la mancata “copertura” da parte della previdenza complementare di una fetta di lavoratori destinata a crescere (questo è l’orientamento legislativo espresso attraverso il d.lgs. 276/2003), in maggioranza giovani, configura un problema non solo di coerenza dell’impostazione legislativa (il secondo pilastro ricompreso nel sistema previdenziale di rilevanza costituzionale) ma un vero e proprio problema sociale.

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8 Agosto 2025
Recapitata lettera Ue, governo risponderà entro domani

Pnrr, la Commissione versa all’Italia la settima rata da 18,3mld

8 Agosto 2025
Tpl Napoli, Garante scioperi sanziona i sindacati per 40mila euro

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8 Agosto 2025
Marcinelle, Cgil: memoria necessaria per evitare altre tragedie

Marcinelle, sessantanove anni fa la tragedia che costò la vita a 262 minatori, 136 italiani. Mattarella: la tutela dei lavoratori resta un’urgente necessità

8 Agosto 2025
Fiom e Cgil: la doppia primogenitura

Ex Ilva, Fiom: fallito l’accordo interistituzionale tra governo e enti locali, mobilitati per impedire che a pagare siano i lavoratori

7 Agosto 2025
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