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Home - Approfondimenti - Interviste - Il coraggio che il sindacato (forse) non ha

Il coraggio che il sindacato (forse) non ha

di Massimo Mascini
4 Aprile 2018
in Interviste
Il coraggio che il sindacato (forse) non ha

L’attacco è contro il sindacato confederale, quello che aspira a un ruolo di soggetto politico e il voto del 5 marzo rappresenta un punto a sfavore di questo ideale, perché ha sancito la scissione tra i dirigenti del sindacato, legati al centrosinistra, e i lavoratori che hanno votato in massa per 5 Stelle e Lega. Alessandro Genovesi, segretario generale degli edili della Cgil, pensa che i gruppi dirigenti del sindacato debbano reagire velocemente recuperando la capacità di analisi e di proposta, sporcandosi le mani con i temi che si pongono, primo tra gli altri quello del cambiamento. Devo0no prendere il toro per le corna. Ma serve coraggio, molto coraggio, che forse i gruppi dirigenti del sindacato non hanno. Nonostante questo coraggio sia nel patrimonio genetico del sindacato e dei lavoratori. Forti di migliaia di delegati, funzionari, militanti, quei gruppi dirigenti devono però provarci, fino in fondo. O un domani non avranno alibi.


Alessandro Genovesi, si prospettano tempi bui per il nostro paese?

Il voto del 4 marzo ci consegna in maniera esplicita la fine di un processo, che non nasce oggi, e che rischia di sancire una scissione tra la società e la politica.


Non è già nei fatti questa scissione?

Il punto è proprio questo. Nel capire se effettivamente si chiude quel ciclo di centrosinistra e di centrodestra che è iniziato nel 1996 con l’Ulivo e poi con il Polo delle libertà a traino Berlusconi. Se con questo voto si evidenzia la scissione tra i gruppi dirigenti del sindacato, che hanno votato tutti per i partiti di centrosinistra, e il mondo del lavoro dipendente, anche quello pubblico, che ha trovato normale avere in tasca la tessera della Cgil e votare 5 Stelle o Lega.


Lei ha dei dubbi in proposito?

Il fenomeno va messo in luce, perché siamo di fronte a un salto di qualità rispetto al passato. Sotto attacco adesso è l’idea stessa di confederalità. Il mondo è sempre stato retto da due mani assieme, da un lato il sindacato, e le proiezioni sociali, le Acli, l’Arci e così via, da un altro i grandi partiti politici. Adesso la situazione è cambiata, emerge l’altra faccia della disintermediazione: perché il pensiero politico recente, di centrodestra o di centrosinistra, non ha mai messo in discussione il ruolo del sindacato in azienda, in ottica unionista, ma invece il ruolo del sindacato, tutto, come soggetto politico. Ma questo è un processo lungo, che dura da anni. E che adesso, il 5 marzo ha avuto il timbro di un notaio.


E questo vi spiazza?

Ci pone un problema nuovo, come riportiamo i nostri, spaventati, arrabbiati, delusi, consegnati a una visione individualista o populista, come li riportiamo a una dimensione di impegno collettivo democratico e progressista. E questo ci spinge a capire come dobbiamo posizionarci davanti alla politica.


Come dovreste muovervi?

Partendo dal presupposto che sarà certamente un’operazione lunga, credo che tutto ruoti attorno a tre coordinate da fondo. Il primo atto deve essere l’autoriforma delle grandi confederazioni. Il Parlamento nei primi cento giorni deve darci una legge sulla rappresentanza che faccia copia e incolla del Testo unico e degli accordi di questi anni. I testi sono già pronti.

Perché la rappresentanza? Ne avete fatto a meno in tanti anni. Ma solo valorizzando l’autonomia del sociale possiamo spendere la nostra credibilità in un processo lungo di costruzione di una vera cultura politica, al di là dei singoli partiti, per un’idea moderna di sinistra, contro i peronismi di destra o di sinistra.


Ancora, cosa deve fare il sindacato italiano?

Tutta la ricostruzione deve basarsi su una forte azione di unità sindacale. Perché sotto attacco non è un’organizzazione, ma una cultura e una pratica, che rappresenta l’originalità del sindacalismo italiano. Infine, dobbiamo assumere noi il tema del cambiamento. Non basta dire trattiamo gli algoritmi, dobbiamo assumere fino in fondo il tema dell’innovazione e declinarlo sotto tutti i punti di vista.


Che significa questo nella pratica?

Per esempio, che dobbiamo mettere a punto un diverso sistema di protezione e promozione, che non sia ancora tutto lasciato al contributo del lavoro. Dobbiamo capire come pagare la democrazia, i costi della sanità, della scuola. Servono nuovi strumenti contrattuali, per esempio per assumere la discontinuità del lavoro, per considerare la qualifica professionale come un portato individuale, per fare una vera lotta alla discriminazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, senza magari rinunciare ad affrontare di nuovo il tema del collocamento.


Ma i partiti che ci sono adesso consentiranno questa ricostruzione? O lavoreranno contro?

Il punto è chi detta l’agenda e se chi lo fa ha obiettivi di lungo o di breve periodo. Se si cavalca la paura e il populismo, magari per tornare a votare a breve, il rischio che corriamo è di consegnare il paese allo sfascio. Per questo dobbiamo sfidare la politica a un progetto di pace, che risponda alle paura e non le cavalchi. Ma Davide Casaleggio è stato chiaro nel’articolo che ha scritto per il Washington Post, vuole che il sindacato, come i partiti, sparisca. Devono essere chiari i termini della partita. Non possiamo limitarci ai talk show o agli Aventini, dobbiamo sporcarci le mani, fare delle proposte alle quali i partiti siano costretti a rispondere chiaramente. In questo modo possiamo arrivare a una ripresa di ruolo nell’ottica confederale.


Il sindacato ha coscienza di queste esigenze?

Penso che la coscienza ci sia nei gruppi dirigenti, manca il coraggio.


Ed è determinante?

Se vogliamo rimanere centrali e portare a casa risultati complessivi, il coraggio è fondamentale. Il coraggio che pure è scritto nel codice genetico del sindacato e dei suoi militanti. Il fatto di poter contare su migliaia di delegati, funzionari, militanti ci permetterebbe ancora di essere “intellettuale collettivo”, ma bisogna avere il coraggio di rivendicare le cose buone, tante, che abbiamo fatto, e saper anche dire che magari non abbiamo le conclusioni, evitando di fare gli errori compiuti dai partiti. Dobbiamo uscire dalla trappola tra il leaderismo autistico e l’invocazione populista alle masse, che oggi sono forse molto più spaurite e divise di quanto non sembri. Un gruppo dirigente si misura proprio sulla capacità di prendere il toro per le corna.


E se il sindacato non trova il coraggio necessario? Che accade?

Che qualcun’altro fa le riforme, magari sbagliate, magari ingiuste, su materie fondamentali per la democrazia del paese. E noi non avremmo alibi.


Massimo Mascini

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