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Home - Blog - Investire nella protezione sociale

Investire nella protezione sociale

di Paolo Pirani
20 Settembre 2021
in Blog
Confindustria, dall’estero l’innesco per la ripresa italiana, PIL in risalita

“Sono un uomo, niente di quel che capita agli esseri umani lo considero a me estraneo” ci ricorda il poeta latino Terenzio. E’, se ci pensiamo bene, la premessa a una riflessione sulla solidarietà’ in questa globalizzazione stressata da molti cambiamenti e dalla pandemia. Il recente congresso dell’Industriall global Union che unisce sindacati industriali di tutto il mondo, forse non sarà in grado di competere con i giganti del web o le grandi potenze ma è pur sempre la testimonianza veritiera degli squilibri e delle ingiustizie che la pandemia ha aumentato spesso in modo drammatico.

Un tempo, specie per motivi ideologici ma non solo, la dimensione internazionale dell’agire sindacale aveva certamente un peso maggiore nelle organizzazioni sindacali nazionali. Due soli esempi: non ci sarebbe stata l’Europa sociale, poi erosa in modo progressivo negli ultimi trenta anni, senza una pressione dei sindacati ed una convergenza di fondo. Ma non si sarebbe neppure salvata una classe dirigente sindacale nei Paesi dominati da dittature se non fosse scattata un’azione solidale non di rado anche rischiosa dei sindacalisti delle democrazie occidentali.

Oggi lo scenario è mutato profondamente ma alcune costanti, come testimoniano i documenti del Congresso mondiale dei sindacati industriali, restano le stesse, pur se dovrebbe cambiare il modo di fronteggiarle. Possiamo citare le affermazioni sulla pandemia: “la pandemia ha messo a nudo la pochezza del sistema, colpevole della scarsa risposta generale: anni di politiche neoliberali con bassi finanziamenti pubblici, bassa resilienza dei sistemi sanitari pubblici e quasi nessun investimento nella protezione sociale”.  Ed ancora:” l’ambiente politico-economico globale ha continuato a svilupparsi in modo preoccupante per i lavoratori.. Dieci anni dopo l’inizio della ultima grande crisi globale, il mondo continua a sperimentare una combinazione di bassi tassi di crescita, alta disoccupazione e concentrazione della ricchezza…”.

Le conseguenze negative non sono evidentemente solo socio-economiche ma peggiorano la situazione dei diritti dei lavoratori, come pure i più generali diritti umani e di libertà. Le violazioni su questo versante diventano, secondo il rapporto dell’Industriall global Union, “più una regola che una eccezione”. In realtà’ questo “osservatorio” sovranazionale offre la opportunità di capire meglio ciò’ che avviene anche da noi. Un esempio viene dai populismi e dai nazionalismi europei fautori di politiche che riducono le conquiste ed il ruolo dei sindacati ma che, come tendenza, non è molto diverso da ciò’ che si registra in altri grandi economie del mondo, dal Brasile alla Cina, dalla India alla vicina Turchia.
E’ conseguentemente naturale che i terreni di impegno per il futuro non possono che essere tracciati dalle emergenze e dai ritardi strutturali presenti nella economia mondiale: dalle iniziative sulla transizione energetica, alla condizione di giovani e donne, a politiche industriali che hanno un forte bisogno di inclusione e formazione.
Per quanto ci riguarda però la riflessione dovrebbe ripartire da cosa si può fare nell’ambito europeo, tenendo conto della singolarità di questo sindacato mondiale dell’industria fortemente influenzato al vertice da dirigenti provenienti da nord Europa e dalla Germania. Ma tenendo un occhio a una evoluzione della economia mondiale le cui ricadute sul nostro Paese si avvertono già sia sul piano di una risorgente inflazione sia su quello, collegato, della bolletta energetica.
La globalizzazione, lo abbiamo già’ notato, viaggia su una… regionalizzazione che trascina con sé vecchi e nuovi problemi: gli orientamenti verso la competizione Usa-Cina per l’egemonia non solo digitale, i flussi migratori drammatici come quelli afgani, le possibili “strette”  finanziarie delle Banche centrali a fronte di un debito globale che tocca i 296 trilioni di dollari, gli aggiustamenti sulle politiche commerciali e molto altro ancora. Nel frattempo prosegue la rivoluzione digitale nell’industria che implica il sostegno di settori strategici, ma anche un grande, e necessario, sforzo per ridurre l’esternalizzazione delle produzioni e riportarne il più possibile a… casa.
Si tratta insomma di tentare di far crescere un nuovo spirito solidale ma su scelte e proposte sindacali condivise davvero e quindi al riparo da spinte particolaristiche e da egoismi di…necessità’.
Così pure è fondamentale far crescere accordi sindacali in grado di far avanzare strategie di controllo e di partecipazione nella vita dei grandi gruppi e delle aziende.
L’Europa diventa per i sindacati un notevole banco di prova e non solo per isolare le forze populiste. Non è un gran segnale ad esempio il risorgere, nei primi accenni di  discussione sulla rivisitazione delle regole europee sospese a causa dell’epidemia, di un’anima rigorista che punterebbe solamente a ritocchi di parametri che invece vanno profondamente ripensati senza ovviamente dar vita ad una anarchia di conti pubblici. Se si vuole davvero far fare passi avanti a questa Europa al centro delle nuove regole non può non stare la crescita e la centralità del lavoro e contemporaneamente un nuovo modello di welfare europeo. Si tratta insomma di ragionare per strategie di lungo periodo, non per evitare una implosione interna all’Unione europea.
Sono obiettivi molto difficili, ma che potrebbero gradualmente e con ragionevolezza riproporre un ruolo più definito e meno marginale di oggi dell’Europa. E offrire ancora una volta a quanti si battono nel mondo per la dignità del lavoro e della persona un punto di riferimento importante come lo è stato in passato.

Nel frattempo dobbiamo affrontare un autunno complicato. La ripresa si vede ma trascina con se problemi di non poco conto: ammortizzatori sociali, riforma fiscale, politiche attive del lavoro e formazione, ed ancora i temi prioritari della sicurezza e della salute. Quale nesso ci può essere con gli scenari internazionali? Uno lo possiamo individuare nella vocazione non provinciale della nostra cultura riformista. Un punto di partenza tuttora molto valido e che deve rafforzare la nostra vocazione ad una iniziativa contrattuale e riformatrice che non deve farsi scoraggiare dalla debolezza del confronto politico, questo sì’ fin troppo… domestico.

L’Italia invece può crescere in autorevolezza oggi e può dar prova di saper utilizzare al meglio le risorse che ha a disposizione. Sempre che la politica non resti chiusa nelle sue labili autosufficienze e sfugga alla tentazione di risolvere il problema del consenso dando spazio alle venature più estremistiche dei diversi schieramenti. Il politologo statunitense Francis Fukuyama parlando del bipolarismo attuale negli USA metteva in guardia di recente dalla polarizzazione interna che dava voce appunto agli estremismi. Un segnale di declino, sosteneva. Quel declino che non vogliamo e che va tolto dall’agenda del nostro percorso economico e sociale.


Paolo Pirani

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Consigliere CNEL

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