Ho visto il futuro del lavoro nei piani di una grande multinazionale e mi chiedo come ne usciremo.
Possiamo partire da un film, un premio Oscar. In “Nomadland”, Frances McDormand, quando la crisi della fabbrica locale devasta la cittadina del Nevada in cui vive, chiude casa, sale su un camper e decide di traversare l’America. Come campa in questi mesi? Ogni volta che finisce i soldi si ferma a lavorare in un magazzino di Amazon. Il film racconta, dunque, l’America vagabonda, ma è anche un apologo sulla grande trasformazione del lavoro: la progressiva estinzione del “colletto blu” e il trasloco della manodopera operaia a valle della fabbrica, nel grande circuito della logistica e della distribuzione commerciale.
E’ quello che racconta la storia di questi anni. Dagli anni ‘90, l’industria manifatturiera negli Usa ha perso 5 milioni di posti di lavoro. Le Big Three di Detroit – Ford, General Motors e Chrysler/Stellantis – che una volta erano l’epicentro del mondo della fabbrica e il centro di gravità dell’occupazione mettono insieme non più di 250 mila lavoratori. Amazon ne conta 1 milione 200 mila ed è solo il secondo datore di lavoro del paese. Ha anche più impiegati Walmart, l’impero commerciale dei supermercati.
Ma è il dinamismo di Amazon che anticipa il futuro. Da tempo, la multinazionale di Jeff Bezos sta portando avanti una campagna di robotizzazione dei suoi depositi e dei suoi centri di smistamento. Ma, ora, un documento aziendale finito nelle mani del New York Times permette di avere un quadro complessivo dei progetti di Amazon o, almeno – se, come sostiene la stessa azienda, non si tratta di piani esecutivi – di quello di cui si sta discutendo. Nei prossimi tre anni, dunque, la campagna di robotizzazione dovrebbe consentire di risparmiare 160 mila posti di lavoro e impostare un drastico taglio di costi. Obiettivo: arrivare a robotizzare il 75 per cento delle operazioni.
Attenzione, non si tratta, almeno in linea di principio, di un piano di licenziamenti. Ma, forse, è anche peggio, considerando il ruolo di Amazon come motore di nuova occupazione: non si tratta, cioè, di riassestare l’azienda per far fronte a difficoltà temporanee, ma di reimmaginare il suo futuro. Se ne rendono conto, probabilmente, anche ai piani alti della multinazionale, dove circola un prontuario preparato dagli uffici di pubbliche relazioni, in cui si suggerisce, nel rapportarsi con le comunità locali, di evitare assolutamente parole come “automazione” e “intelligenza artificiale” e anche “robot” (da sostituire con “cobot”, con il “co” di cooperazione).
Quello che Amazon, dunque, conta di fare è, infatti, smettere di assumere, nonostante l’espansione continui. Robotizzare il 75 per cento delle operazioni vuol dire che, al 2033 l’azienda raddoppierà le vendite, ma non accompagnerà questo aumento con un parallelo aumento dell’occupazione. Messo in cifre, significa che Amazon assumerà 600 mila persone in meno di quelle che avrebbe cercato se non ci fosse la campagna di robotizzazione. Non è lavoro che si ferma, è lavoro che non si materializza.
Dietro ci sono numeri che, dal punto di vista aziendale, è difficile discutere. La campagna di robotizzazione dovrebbe costare 10 miliardi di dollari, ma produrre risparmi per 12,5 miliardi solo nei primi tre anni. Anche per il sindacato – dove esiste – è difficile muoversi in questo scenario. Nei mesi scorsi, un compatto sciopero dei portuali (categoria ultrasindacalizzata) da cui si temevano drammatiche conseguenze per l’economia americana si è spento con un accordo rivelatore. Il sindacato contestava la progressiva automazione del lavoro portuale. Ha finito per accettare l’automazione, in cambio di soldi subito in busta paga e garanzie per i posti di lavoro attuali. Su quelli futuri non si impegna nessuno.
Quello che i magazzini di Amazon e i porti della California ci raccontano, insomma, è la divaricazione fra espansione economica e occupazione, che non procedono più necessariamente nella stessa direzione. L’ipotesi, peraltro, che quei posti di lavoro persi al capo meno nobile dell’occupazione si recuperino al capo opposto, grazie al boom dell’intelligenza artificiale, è la pretesa di camminare sull’acqua. E’ evidente, infatti, che si tratta di fasce di forza lavoro diverse e assolutamente non sovrapponibili. D’altra parte, sempre per restare in America, le inedite difficoltà dei neolaureati – in base a sondaggi e statistiche – di trovare, oggi, lavoro segnala che, per il momento, la stessa intelligenza artificiale non si sta traducendo in un motore di occupazione.
Può essere la classica fase transitoria di ogni rivoluzione tecnologica (dall’invenzione dell’aratro in giù) che sconvolge e riassesta le attività umane. Anche la transizione, però, può essere molto penosa. Quello che è dolorosamente chiaro ora è che di lavoro – in particolare di lavoro normale per gente normale – oggi ce n’è poco. Soprattutto, ce ne sarà sempre meno. Scendi dal camper, Frances.
Maurizio Ricci