Esperti del settore a confronto sull’importanza del percorso di certificazione, fondamentale per rispondere alle richieste del mercato del lavoro, cercando di capire quali possano essere i risvolti futuri di questo processo volto a garantire l’employability. E’ il senso del seminario: “La formazione continua si confronta”, organizzato da Fondoprofessioni, l’ente interprofessionale che eroga contributi per finanziare la formazione del personale degli studi professionali e delle aziende in base alle loro necessità, garantendo allo stesso tempo un monitoraggio costante delle competenze richieste dal mercato del lavoro e dai diversi settori professionali. L’ente, in sostanza, accompagna i lavoratori nei processi di innovazione e sviluppo attraverso l’acquisizione di nuove conoscenze e capacità.
Il seminario romano ha visto la partecipazione di professori universitari, liberi professionisti e imprenditori, riuniti per discutere circa l’importanza e l’urgenza di investire nella formazione continua e nelle certificazioni come strumenti non solo di crescita individuale, ma di resilienza aziendale di fronte ai rapidi cambiamenti tecnologici. Infatti, all’interno dello stesso evento, era presente anche un secondo panel orientato ad approfondire l’importanza dell’Intelligenza Artificiale (IA) nella formazione continua. Protagonisti al centro del dibattito sono stati Arduino Salatin, Professore ordinario all’Istituto Universitario Salesiano di Venezia, Marco Ruffino, esperto in processi di apprendimento, e Ferruccio Cavallin, psicologo dell’organizzazione, che si sono confrontati su temi, modelli e possibili evoluzioni della certificazione delle competenze nella formazione continua.
Ruffino ha toccato una serie di punti chiave che riguardano tre aspetti fondamentali: il valore del certificato, la definizione delle competenze e il diritto alla formazione. Un certificato non ha un valore intrinseco, ha spiegato, ma acquisisce valore solo quando porta “valore d’uso”, ovvero quando dimostra che l’individuo sa fare qualcosa di utile e spendibile, oppure quando ha un valore riconosciuto e richiesto dalle aziende che sono disposte a “scambiarlo” con un’opportunità di impiego. Il problema sorge quando i percorsi formativi non sono allineati con le esigenze reali del mercato, portando a certificati che “non valgono” nulla in termini di occupabilità.
Un altro aspetto fondamentale riguarda il problema del diritto alla Formazione e dei suoi costi. Il “diritto di avere la formazione ma non a spese mie”, evidenziato da Ruffino, solleva il tema dell’equità e dell’investimento pubblico/privato: l’accesso alla formazione dovrebbe infatti essere garantito equamente, a prescindere dalla classe sociale e senza essere precluso da barriere economiche, così come equo dovrebbe essere il miglioramento delle competenze (fondamentale per restare occupabili). Una soluzione alternativa, per Ruffino, potrebbe essere quella di adottare un modello di formazione 50/50 (50% a carico del lavoratore/cittadino e 50% coperto da altri fondi, pubblici o aziendali): un tentativo di condivisione della responsabilità che riconosce l’acquisizione di competenze come un beneficio sia per l’individuo (carriera migliore) sia per il sistema economico (lavoratori più qualificati).
Un’ulteriore considerazione su cui l’esperto di processi di apprendimento si è soffermato è stata l’esigenza di un sistema di Certificazione: “meglio avere un sistema che va verso la certificazione anche se imperfetto”, ha sottolineato, precisando che un sistema di certificazione, anche se impreciso e carente, è meglio dell’assenza totale, perché fornisce almeno un linguaggio comune e un punto di riferimento per datori di lavoro e lavoratori. Inoltre, le criticità del modello di certificazione possono essere l’inizio di un miglioramento continuo: l’imperfezione è vista come un punto di partenza per standardizzare, definire meglio le competenze (come stanno facendo molti paesi europei) e rendere il sistema più trasparente e credibile nel tempo. La sfida è rendere il certificato un vero e proprio passaporto per il lavoro, garantendo che ciò che viene certificato sia effettivamente ciò che serve e che tutti abbiano la possibilità di ottenerlo.
La certificazione, inoltre, consente di inserire “l’uomo giusto al posto giusto”. Per il datore di lavoro il certificato funge da segnale rapido e standardizzato. Se un’azienda deve selezionare un esperto, un “bollino” riconosciuto (come una certificazione professionale IT o linguistica) le risparmia tempo e risorse nella valutazione iniziale, aumentando la probabilità di mettere il lavoratore nella posizione adeguata. Per il lavoratore, il certificato gli permette di distinguersi dalla massa di candidati e di far emergere le proprie competenze in modo credibile, velocizzando l’inserimento. Proprio per questo la ragione fondamentale per cui il mercato richiede certificazioni è la riduzione dell’incertezza e dei costi di selezione (il cosiddetto screening).
Questo processo comporta il rovescio della medaglia: la necessità di usare la certificazione come strumento di screening porta inevitabilmente a un aumento della competizione tra i lavoratori, arrivando a una situazione ancora più complessa: un’inflazione da certificato. Se tutti hanno un diploma o una laurea, il mercato inizia a richiedere certificazioni aggiuntive per creare una nuova differenziazione. Questo porta a una rincorsa continua, dove i lavoratori sono costretti a investire tempo e denaro per accumulare riconoscimenti. La competizione si sposta dal dimostrare la competenza reale al dimostrare il possesso del “bollino”, poiché il certificato è la rappresentazione della competenza, non la competenza stessa. Si può affermare che il sistema di certificazione nasce per ottimizzare l’abbinamento domanda-offerta di lavoro, ma la sua proliferazione trasforma questo strumento in un meccanismo di competizione che rischia di premiare più la capacità di certificarsi che la reale capacità di agire efficacemente (la competenza che nasce nell’emergenza).
Le tesi di Ruffino si sono “scontrate” con quelle del suo “antagonista” Ferruccio Cavallin, che ha sottolineato proprio come la competenza nasca nell’emergenza, che risulta essere l’elemento cruciale. La vera competenza si manifesta non nel momento in cui si seguono pedissequamente le procedure (la routine): lì, ha sottolineato Cavallin, la tecnologia ha sempre sostituito il lavoro umano. La competenza, quindi, emerge quando occorre deviare, adattare o reinventare la procedura di fronte a un’anomalia o a una crisi, e per questo risulta difficile da certificare. Il valore dell’essere umano nel lavoro moderno, ha sostenuto, risiede proprio nella capacità di gestire l’emergenza e l’eccezione mediante la mobilitazione delle proprie risorse per trovare una soluzione ad hoc in un contesto non previsto, eccellendo nel problem solving non strutturato, nel pensiero laterale, nel giudizio etico e nella gestione dell’imprevisto, mentre le tecnologie spiccano nella riproduzione dei processi appresi, proprio come l’IA.
A supporto delle sue tesi, Cavallin ha utilizzato alcuni riferimenti artistici, tra cui il rimando al “Tradimento delle immagini” di Magritte: (“Ceci n’est pas une pipe” – “Questa non è una pipa”). Un rimando calzante, poiché il certificato attesta che, in un dato momento e in un dato contesto di valutazione, l’individuo ha dimostrato di possedere determinate competenze, ma la vera competenza esiste solo in una rete di relazioni (tra persone, strumenti, conoscenze, contesto). Se la certificazione non tiene conto di questo ecosistema, perde la sua validità e il suo potere come strumento di contrattazione equa. La sfida per il futuro è sviluppare sistemi di misurazione e certificazione che siano: comportamentali, contestuali e dinamici. Questo è stato il punto di partenza per un altro aspetto fondamentale: “è impossibile isolare una singola competenza”, ci ha detto Cavallin, che ha demolito l’approccio puramente analitico alla valutazione. Le competenze non sono mattoni separati, ma nodi di una rete che funzionano in sinergia. La leadership non è un singolo tratto, anzi, è la manifestazione coordinata di comunicazione efficace, capacità di sopportazione dello stress, decision making rapido, intelligenza emotiva, e così via. La leadership è la somma di tutte queste azioni interconnesse e varia in base al contesto e al team (l’ecosistema). Il sistema ideale, secondo lo psicologo dell’organizzazione, dovrebbe certificare non tanto la conoscenza della procedura, quanto la capacità di reagire efficacemente quando la procedura fallisce o è insufficiente.
La seconda sessione di confronto si è incentrata sul tema cruciale dell’Intelligenza Artificiale (IA) applicata alla formazione, riconoscendola come una vera e propria nuova frontiera che offre prospettive eccezionali, ma che impone al contempo nuove e significative responsabilità etiche e operative. L’IA è stata elogiata per le sue capacità distintive: può customizzare (personalizzare) i programmi di studio, elaborare grandi volumi di dati per ricavarne insight preziosi e, in ultima analisi, elevare la qualità complessiva dell’insegnamento. Tuttavia, è stato rimarcato che un’innovazione così potente richiede necessariamente interventi correttivi a livello pratico e una profonda riflessione sul ruolo centrale dell’essere umano in questo contesto. Per rendere l’argomento immediatamente tangibile, è stato messo in scena un esperimento emblematico: la funzione di “voce critica” o “avvocato del diavolo” della discussione è stata assunta da un’applicazione di Intelligenza Artificiale (Caterina Copernico). L’IA ha presentato le sue argomentazioni in modo autonomo e convincente, offrendo una dimostrazione concreta sia del potenziale trasformativo sia dei limiti della tecnologia stessa. Questo evento inaspettato ha reso palese un imperativo: è fondamentale guidare e gestire attivamente l’innovazione tecnologica, piuttosto che limitarsi a subirla passivamente. Al dibattito hanno contribuito esperti di alto livello: Vivaldo Moscatelli (Ambassador EDSC per la certificazione delle competenze digitali), Emanuele Frontoni (Professore ordinario di Informatica e co-director del VRAI Lab) e, appunto, l’applicativo Caterina Copernico.
Questi diversi punti di vista, messi in mostra dai rappresentanti delle istituzioni e della formazione professionale, hanno però fatto emergere un pensiero univoco: sebbene le certificazioni siano cruciali per garantire la trasparenza e il valore delle competenze sul mercato, la loro attuale struttura genera difficoltà operative e burocratiche, specialmente per le Piccole e Medie Imprese (PMI). La sfida resta creare meccanismi di riconoscimento accessibili e poco onerosi, in modo che il sistema diventi un catalizzatore di crescita e un vantaggio pratico per i lavoratori, anziché un ostacolo amministrativo per le imprese.
Il Forum 2025 di Fondoprofessioni, insomma, ha delineato una strategia chiara e urgente per il futuro del lavoro, ponendo la formazione continua al centro della trasformazione economica e sociale. L’assunto fondamentale, emerso con grande chiarezza, è che l’apprendimento non può più essere un evento isolato, ma deve configurarsi come un motore inesauribile del cambiamento. A tal proposito, come ha sottolineato il Presidente di Fondoprofessioni, Marco Natali, “dalla giornata è emersa una visione chiara: la formazione continua deve diventare il motore del cambiamento, capace di accompagnare le trasformazioni tecnologiche e sociali senza perdere di vista la dimensione umana”, evidenziando la necessità di “un approccio bilanciato, dove l’innovazione tecnologica non prevalga sull’individuo, ma sia da esso governata”.
Per tradurre questa visione in azioni concrete, il Fondo ha destinato risorse crescenti attraverso i suoi Avvisi, concentrandosi strategicamente su due fronti: in primo luogo, un utilizzo consapevole dell’Intelligenza Artificiale. L’obiettivo è sicuramente quello di permettere a professionisti e dipendenti di integrare questi strumenti, trasformandoli da semplici utility a veri e propri partner di lavoro. Inoltre, il Fondo ha riconosciuto che l’efficacia nell’era digitale dipende in gran parte dalle competenze che le macchine non possono sostituire. Per questo, ha puntato con forza sullo sviluppo delle soft skills, ritenute indispensabili per governare il cambiamento, tra cui l’adattabilità, il pensiero critico e la capacità di problem solving in contesti non strutturati. Il dibattito emerso dal Forum 2025 non si è limitato a una constatazione dei problemi, ma ha gettato le basi per una vera e propria nuova stagione della formazione professionale. L’impegno è quindi quello di muoversi da un modello reattivo a un modello proattivo, dove la formazione anticipa le necessità del mercato per trasformare la complessità in opportunità.
Emidio Formicola























