Venerdì prossimo, 14 novembre, e il successivo lunedì, 17 novembre, i sindacati dei metalmeccanici terranno assemblee in tutti gli stabilimenti di Acciaierie d’Italia. Detta così, questa notizia, comunicata ieri pomeriggio dai Segretari generali di Fim, Fiom e Uilm nel corso di una conferenza stampa, potrebbe forse apparire come una notizia rutinaria. Una delle tante di cui è intessuta quella lunga vicenda che qui, al Diario del lavoro, abbiamo definito come la Never Ending Story della ex Ilva. Ma non è così. Infatti, come hanno spiegato Ferdinando Uliano, Michele De Palma e Rocco Palombella, ovvero i sopra citati Segretari generali, questa stessa vicenda è giunta a quello che si presenta come un passaggio molto grave. Vediamo perché.
Martedì 11 novembre, Fim, Fiom e Uilm erano stati convocati a Palazzo Chigi per riprendere a parlare di Acciaierie d’Italia in Amministrazione straordinaria. Che tale è il nome attuale di quella che un tempo è stata la mitica Ilva. I sindacati dei metalmeccanici si aspettavano quindi che fosse possibile riaprire un discorso volto, innanzitutto, a fare il punto sulle trattative teoricamente aperte con vari soggetti per la vendita della stessa AdI.
Con vero sgomento, i citati dirigenti sindacali si sono invece trovati di fronte a una decina scarsa di pagine contenenti non veri e propri testi scritti, ma schemi riassuntivi di alcuni aspetti delle questioni inerenti alle prospettive della ex Ilva. Pagine dalla cui lettura i dirigenti sindacali hanno ricavato una sola notizia certa. Quella relativa all’intenzione del Governo di far salire ancora il numero dei lavoratori posti in Cassa integrazione.
Come si ricorderà, fino a tutta l’estate scorsa, oltre ai 1.600 dipendenti di Ilva in Amministrazione straordinaria posti da tempo in Cassa integrazione, i lavoratori di Acciaierie d’Italia (in A.S.), posti anch’essi in Cassa integrazione, erano circa 3.200 su un totale di circa 10.000 dipendenti. A settembre, in presenza di un mancato accordo con i sindacati, l’Azienda, con l’appoggio del Governo, decise unilateralmente di far salire di oltre un migliaio il numero dei propri dipendenti in Cassa integrazione, portandone il totale a circa 4.500.
Martedì, nel corso dell’incontro a palazzo Chigi, il Governo ha sostenuto che una non meglio specificata “rimodulazione dell’attività produttiva” richiederà una crescita del ricorso alla Cassa integrazione, che passerà così dalle circa 4.500 unità di cui sopra, a circa 5.700 unità. Insomma, altri 1.200 cassintegrati in più a partire da sabato prossimo.
Ma non è finita. Infatti, dal 1° gennaio 2026, a causa della prevista “fermata” delle batterie di cokefazione, il totale crescerà di altre 300 unità, arrivando a toccare i 6.000 cassintegrati (sempre senza contare i 1.600 cassintegrati di Ilva in A.S.). Insomma, 6 cassintegrati ogni 10 lavoratori.
L’amara, ancorché – si immagina – involontaria ironia della comunicazione governativa, sta nel fatto che il Governo stesso ha detto ai sindacati che, a suo avviso, dalla settimana prossima sarà necessario avviare un nuovo piano operativo definito, incomprensibilmente, come un piano “a ciclo corto”. Piano che, ecco l’amara ironia, prevederà, a partire dal 1° gennaio dell’anno prossimo, il fermo di produzione, come detto sopra, delle 4 batterie di cockefazione ancora in funzione a Taranto. Nel contempo, il progetto governativo si propone di acquistare da terzi il carbon coke.
Quindi, a breve, più impianti fermi e meno lavoratori in attività. Come da tutto questo possa partire un rilancio è difficile capirlo. Così come è difficile capire su cosa possa poggiare lo sbandierato accorciamento del “piano di decarbonizzazione”, delineato nei mesi scorsi, da otto a quattro anni.
E le trattative, teoricamente, in corso con vari soggetti per la vendita di Adi? Qui, dopo la scomparsa dall’orizzonte degli azeri di Baku Steel, il mistero si infittisce. In primo luogo va detto che, secondo il Governo, sarebbero ancora in corso contatti con Bedrock Industries, mentre un primo incontro sarebbe stato effettuato con Flacks Group. Due operatori che, agli occhi dei sindacati, hanno il grave limite di essere gruppi finanziari, e non gruppi industriali. Mentre, per rilanciare l’Ilva, servirebbe proprio un soggetto industriale.
Sempre secondo il Governo, a questi due gruppi si sarebbe poi aggiunto di recente un terzo soggetto estero il cui nome, per adesso, viene però mantenuto riservato.
Secondo i sindacati, il Governo avrebbe comunque teso a non assumersi nessuna responsabilità per le evidenti difficoltà fin qui incontrate. Difficoltà che sembrano aver portato a una impasse pressoché totale del piano di decarbonizzazione e di rilancio delineato appena pochi mesi fa. Ma, dato il primario rilievo nazionale della produzione di acciaio in un Paese basato sull’industria manifatturiera, quale è il nostro, dai sindacati sono anche stati lanciati appelli al capo del Governo stesso, Giorgia Meloni, affinché si assuma le responsabilità che le competono.
Più in generale, i sindacati si sono mostrati convinti della necessità che, almeno fino alla comparsa in scena di un soggetto industriale credibile quale candidato all’acquisizione di AdI, sia appunto il Governo il solo che possa assumere, ancorché a tempo, un ruolo di guida diretta del nostro maggior gruppo siderurgico.
Nell’immediato, i sindacati si presenteranno uniti davanti ai lavoratori, per spiegare a quale punto è giunta la vicenda industriale del gruppo cui hanno dedicato non pochi anni della propria vita. Dopodiché, i sindacati stessi intendono riprendere la propria iniziativa, anche tornando a interpellare quelle forze parlamentari con cui si erano incontrati alla fine dell’agosto scorso.
Fernando Liuzzi



























