I tagli al Fondo cinema previsti nella manovra di bilancio sono un po’ commedia, un po’ tragedia e anche un po’ farsa. Comunque sia un film già visto, ma ogni volta è come se fosse la prima. Perché il gelo della “razionalizzazione” delle spese del comparto spira da qualche anno sul collo dei 124mila impiegati tra produzione, distribuzione, tecnici, maestranze e servizi alle imprese. In principio fu l’ex ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, con la sua riforma del tax credit che oltre a inasprire i criteri di accesso (e penalizzare soprattutto le PMI) ha fatto patire il comparto anche per i ritardi nell’emanazione dei decreti attuativi. Poi, nel mezzo, il passaggio di reggenza con l’attuale capo Alessandro Giuli, dal quale era attesa una postura più dialogica e che invece si è risolta in un oltranzismo ancor più radicale. Fino all’ottobre della (forse) penultima manovra del governo Meloni: secca, austera, leggera. Motivata dall’esigenza di uscire dalla procedura d’infrazione, interpretata come prodromo per i fuochi d’artificio elettorali del 2027. Fatto sta che i 7,5 miliardi complessivi di tagli a spese e investimenti nei ministeri ha fatto arrabbiare molti illustri del governo. Molti, non tutti, perché c’è chi invece si è dimostrato più assertivo. Alessandro Giuli, per l’appunto. Nella prima bozza del 19 ottobre 2025, sono stati previsti tagli al Fondo cinema da 190 milioni nel 2026 e da 240 milioni dal 2027. Una mossa che ha rinfocolato l’arrabbiatura del comparto e soprattutto la reazione della sottosegretaria leghista all’audiovisivo Lucia Borgonzoni, che prontamente ha scritto una mail alla premier Meloni, al sodale di partito e capo del Mef Giancarlo Giorgetti e al suo datore Giuli in cui invitava a ripensare questa eutanasia di settore. Forse cogliendo nel segno o forse per puro ravvedimento, la ragioneria ci ripensa e applica uno sconto da 40 milioni l’anno che finisce nel testo bollinato. Si passa così, il 22 ottobre, ai 150milioni per il 2026 e 200milioni dal 2027.
Ma quello che resta agli atti per i rappresentati e i lavoratori del comparto è la compiacenza di Giuli nei confronti della spending review, arrivando addirittura a chiedere al Mef tagli ben più consistenti, come risulta da una mail pubblicata da La Repubblica: una riduzione di 240 milioni nel 2026 e di 300 milioni nel 2027. Ironia della sorte, sono stati proprio i tecnici del Mef a suggerire agli uffici del Mic meno drasticità e arrivare, dunque, ai livelli attuali. Davanti alla pioggia di critiche Giuli tiene il punto, definisce le ricostruzioni tendenziose e in un’intervista al Foglio spiega la bontà della decisione: meglio tagliare il Fondo cinema che i beni culturali, il vero core business del ministero. I maligni parlano di una vendetta personale nei confronti di Borgonzoni (qui e qui i moventi del delitto) e non è immediato derubricare lo spunto a puro gossip: come disse qualcuno “a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”. Epperò comunque una pezza andava messa, per cui in fretta e furia Giuli appronta un decreto per traslare 100 milioni dal fondo dei contributi automatici al tax credit. Peccato che il grand commis (diritto d’autore ad Antonio Tajani) Daria Perrotta, ragioniera di Stato, lo ha rispedito al mittente. Prima di tutto, la richiesta non può essere accolta perché il nuovo Patto di Stabilità vieta di riutilizzare le somme residue. Inoltre, anche un’eventuale deroga chiesta dal dirigente del Ministero non sarebbe praticabile, perché può essere valutata solo dopo aver verificato gli equilibri di finanza pubblica, controlli che vengono effettuati in occasione dei documenti economici da approvare entro il 2 ottobre e il 10 aprile.
Insomma, resta che l’audiovisivo si ritrova di nuovo nei marosi e a nulla valgono nemmeno le rassicurazioni provenienti dal testo della manovra. I tagli imposti a tutti i ministeri servono a far rispettare le nuove regole Ue che vietano l’accumulo di passivi, si spiega, quindi non ci sarebbe dolo, tanto che all’articolo 129 del testo si prevede che le somme tagliate in conto capitale nel triennio vengano riassegnate in quello successivo. Le chiamano “misure di efficientamento della spesa”. Tocca aspettare giusto qualche anno.
Ma il diavolo di annida nei dettagli – o meglio, nell’articolo 26 della manovra, che non si riferisce solo alle industrie dell’audiovisivo, ma a tutte le imprese italiane circa l’utilizzabilità del tax credit. A partire dal 1° luglio 2026, infatti, i crediti d’imposta diversi da quelli emergenti dalla liquidazione delle imposte non potranno più essere usati in compensazione per pagare debiti previdenziali. Tale divieto si applica anche ai suddetti crediti d’imposta trasferiti a soggetti diversi dal titolare originario. Così facendo, dunque, si danneggerebbe la liquidità delle imprese che usano i crediti d’imposta come fonte di finanziamento. Per le imprese dell’audiovisivo, che utilizzano il tax credit come galleggiante, sarebbe una mazzata. Non solo. Voci di corridoio parlano di un ritorno al “click day” per l’accesso al Fondo, una pratica che è sostanzialmente una gara a chi ha il dito più veloce del west per accaparrarsi il credito d’imposta – il più delle volte quando la produzione è in media res -, con il rischio di trovarsi sul groppone migliaia di contribuiti da versare a proprie spese se non è stati abbastanza celeri.
Tutto ciò è frutto di quella guerra agli sprechi e all’amichettismo ingaggiata dal governo per punire la sinistra che per anni ha presidiato il mondo della cultura – e anche, più pretestuosamente, Elio Germano che durante la cerimonia al Quirinale per i David di Donatello non le ha mandate a dire al Ministro. A colpi di tagli e correzioni, l’obiettivo dichiarato è di colpire i presunti furbetti delle produzioni che gonfiano i conti per un ritorno fiscale più corposo (oggetto di indagini della Procura di Roma), nonché di premiare il merito delle produzioni più virtuose – quelle che, volgarmente, sbigliettano. Certo è che il sistema aveva ed ha bisogno di correttivi, ma altrettanto certo è che quella intrapresa non sia la strada giusta. Non è un costo che ritorna, come vorrebbero, ma un prezzo che pagherà tutto il comparto. Secondo uno studio di Cassa Depositi e Prestiti, nel 2023 la filiera dell’audiovisivo ha fatto registrare un fatturato di 13 miliardi di euro, il 10% del totale europeo. Complessivamente sono 8.800 le imprese attive che occupano 95mila lavoratori più altri 114mila della filiera. Lo studio, basato su dati Istat, calcola anche che ogni euro investito ne genera 3,54 di impatto, diretto e indiretto.
“I tagli al cineaudiovisivo sono fatti senza un vero progetto di riforma del sistema e senza aver proceduto con gradualità e condivisione, in particolare con il mondo del lavoro del settore che rischia di subire un’importante impennata della disoccupazione”, dichiara Sabina Di Marco, segretaria nazionale di Slc Cgil per le Produzioni culturali. “Il tema del finanziamento pubblico allo spettacolo va affrontato in modo sistematico e coerente”. In questo contesto ci sono molti contratti aperti e incertezza di risorse destinate, “e con i tagli al cinema si offre una buona giustificazione per non procedere con il rinnovo del contratto collettivo delle troupes”.
“Aspettiamo che si abbassino i toni per tentare di contribuire a valorizzare un settore che avrebbe bisogno di meno ideologia e più regole”, conclude Di Marco che a Birmingham, durante il 23° congresso della Fia – Federazione internazionale degli attori – ha chiesto “solidarietà e condivisione d’intenti e mobilitazione per arginare un processo di progressivo impoverimento del settore spettacolo e cultura a causa di politiche globali che investono sempre meno in questi settori strategici fonti di sviluppo e democrazia”. Proprio il Fia, che conta 89 membri in più di 60 Paesi di tutto il mondo, ha approvato una risoluzione che esprime pieno sostegno e solidarietà alla mobilitazione del sindacato, tra cui lo sciopero del 12 dicembre contro i tagli del governo italiano ai fondi per la cultura e lo spettacolo
Lo scorso 5 novembre, poi, alla Casa del Cinema di Roma si è tenuta una conferenza stampa congiunta organizzata dalle tre associazioni di settore: CNA Cinema e Audiovisivo, Anica e Apa – Associazione produttori audiovisivi. “Chiediamo alla politica perlomeno di concordare insieme le tempistiche”, ha esordito Gianluca Curti, presidente nazionale CNA Cinema e Audiovisivo, che siano orientate a “una transizione graduale: una parte dei tagli nel 2026, una nel 2027 e l’entrata a regime nel 2028, per garantire continuità e stabilità all’intera filiera”. Per poi ribadire: “Se non avessimo la possibilità di confrontarci con il Governo e con le forze parlamentari sulla tempistica di attuazione dei tagli previsti, ci troveremmo, dalla sera alla mattina, con 70-75 mila posti di lavoro in meno in tutta Italia. Sarebbe un ‘piccolo’ dramma epocale”.
Una circostanza che ha in seno anche il fenomeno della desertificazione delle sale cinematografiche, su cui anche Papa Leone XIV si è espresso. “Il cinema è molto più di un semplice schermo – ha affermato nell’udienza con i rappresentanti della settima arte -. È un laboratorio della speranza, un luogo dove l’uomo può tornare a guardare sé stesso e il proprio destino”. Per questo lancia un appello: “Le sale cinematografiche vivono una preoccupante erosione che le sta sottraendo a città e quartieri. E non sono in pochi a dire che l’arte del cinema e l’esperienza cinematografica sono in pericolo. Invito le istituzioni a non rassegnarsi e a cooperare per affermare il valore sociale di questa attività”.
Elettra Raffaela Melucci



























