In un Paese come l’Italia, dove la natalità è ai minimi storici, il dibattito pubblico si divide spesso tra allarmi demografici e timori per la sostenibilità del sistema economico e sociale. Eppure, mentre molto si discute e poco si riesce davvero a fare sul fronte delle nascite, c’è un elemento che dovrebbe guidare ogni riflessione: la natalità non può essere aumentata per decreto. Si possono creare contesti più favorevoli alle famiglie, certo, ma la demografia risponde a variabili culturali, economiche e sociali che maturano in decenni, non in una legge finanziaria. E anche se improvvisamente nascessero più figli, avremmo comunque un limite strutturale: le risorse del pianeta. L’Earth Overshoot Day ci ricorda ogni anno che la Terra ha confini precisi. Nel 2025 l’umanità ha consumato tutte le risorse rigenerabili il 24 luglio, e l’Italia è arrivata a questa soglia addirittura il 6 maggio. Se la popolazione mondiale continuasse a crescere senza controllo, semplicemente non ci sarebbe abbastanza per tutti. È quindi evidente che la soluzione non può essere solo “fare più persone”, soprattutto in un mondo che già oggi vive oltre i propri limiti ecologici. La vera leva, quella su cui la politica può intervenire davvero, riguarda il lavoro: far lavorare di più e far lavorare meglio chi già c’è. Qui l’Italia ha uno dei suoi paradossi più evidenti. Abbiamo uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa, intorno al 67% contro il 75,8% della media UE, e abbiamo anche una delle vite lavorative attese più brevi: un giovane Italiano di 15 anni si stima lavorerà mediamente 33 anni nella sua vita, contro i quasi 37 della media europea. Questo significa che non ci mancano le persone, ma l’attivazione del loro potenziale. Aumentare l’occupazione, però, non significa obbligare i pochi che già lavorano a farlo ancora più a lungo, magari innalzando rigidamente l’età pensionabile. Questo avrebbe un solo effetto: scaricare il peso sulle stesse categorie che già sostengono il Paese. “Più e meglio”, invece, vuol dire una cosa completamente diversa. Significa creare le condizioni affinché chi vuole possa lavorare più a lungo, grazie a buona salute, competenze aggiornate, forme di flessibilità, percorsi graduali e passaggi intelligenti tra pieno impegno e ruoli di tutoraggio o mentoring. E significa soprattutto far lavorare di più chi oggi lavora troppo poco: giovani che entrano tardi, donne penalizzate da servizi insufficienti e modelli culturali ancora arretrati, territori in cui l’inattività è diventata strutturale, carriere spezzate da precarietà, mancati investimenti e scarse opportunità. È in questa enorme area di sottoutilizzo che si gioca la vera sostenibilità del Paese. Anzi, per essere ottimisti, è questo il nostro enorme potenziale inespresso che potrebbe davvero spingerci alla crescita economica.
A differenza delle nascite, qui la politica può intervenire davvero: migliorando i servizi, stimolando l’occupazione femminile, riducendo i tempi di transizione tra scuola e lavoro, sostenendo competenze e formazione, favorendo l’invecchiamento attivo, incentivando le imprese ad assumere, creare carriere con percorsi formative adeguati, innovare. Se più persone lavorano, se lavorano meglio e se restano attive più a lungo perché ne hanno la volontà e la possibilità, aumenta automaticamente anche la produttività complessiva. E in un sistema più produttivo si possono alzare i salari in modo stabile, non come misura assistenziale ma come risultato naturale della crescita.
In questo quadro generale, l’esperienza contrattuale di Manageritalia (il sindacato che rappresenta manager e per questo deve essere valutato) offre un esempio concreto di come sia possibile intervenire non sulla demografia, ma sulla qualità e sulla durata della vita lavorativa. Nel rinnovo del CCNL dei dirigenti del terziario è stato introdotto un articolo dedicato all’invecchiamento attivo, una scelta che va esattamente nella direzione di cui il Paese ha bisogno: accompagnare, non costringere; valorizzare, non sostituire; utilizzare le competenze maturate invece di disperderle. L’idea è semplice ma rivoluzionaria per un sistema del lavoro spesso bloccato tra automatismi e rigidità: permettere ai dirigenti senior, negli ultimi anni di carriera, di rientrare o restare nel mondo del lavoro con forme più flessibili, contratti modulati, funzioni specifiche e soprattutto un ruolo di trasmissione delle competenze. Non un allungamento forzato, ma un vero investimento sull’esperienza, che diventa un patrimonio condiviso e non un bagaglio destinato a scomparire con il pensionamento.
Il CCNL consente infatti di proporre al manager in azienda di almeno 64 anni la stipula di contratti a tempo determinato, anche part-time, che possibilmente allunghino la sua carriera nella stessa azienda, che regolamentino funzioni di tutoraggio, mentoring, affiancamento ai nuovi quadri e ai giovani manager. È un modo intelligente per trasformare l’ultima fase della carriera in un valore aggiunto, creando nuove figure professionali dedicate proprio alla crescita organizzativa. Questo approccio non solo permette a chi lo desidera di restare attivo più a lungo, ma favorisce un vero ricambio generazionale di qualità: i giovani non vengono “sostituiti” ai senior, ma crescono grazie a loro, assorbendo in pochi anni una quantità di competenze che altrimenti richiederebbero decenni. E il dirigente senior contestualmente accetta, dietro alcune garanzie, di cambiare ruolo, con l’impengo di far crescere competenze, ma no da consulente, in un contesto organizzato e strategicamente costruito nel tempo dall’azienda.
Questo esempio dimostra come un contratto collettivo, quando è costruito bene, possa diventare una vera politica pubblica, anticipando ciò che il Paese fatica a realizzare per legge: prolungare la vita lavorativa senza forzature, ma con intelligenza, flessibilità e una logica di scambio generazionale. È un modello che parla la lingua della sostenibilità sociale, dell’innovazione organizzativa e della nuova economia dell’esperienza: quella parte della silver economy che non riguarda solo consumi e servizi dedicati agli over 60, ma anche il loro ruolo attivo nella produzione, nella conoscenza e nella trasmissione del sapere. Accanto a questo, il contratto dei dirigenti del terziario introduce molte innovazioni anche sul fronte della parità di genere, della genitorialità, delle coperture e dei servizi dedicati alla famiglia e alla mamma manager. È un sistema contrattuale che accompagna la crescita sociale di un’intera categoria e che, proprio per questo, è diventato un benchmark in molti suoi aspetti, replicabile in altri settori.
Se l’Italia adottasse su larga scala un approccio simile – valorizzando la bilateralità e i CCNL più avanzati, integrando politiche del lavoro, welfare aziendale, formazione continua e age management – l’impatto sarebbe significativo: aumenterebbe la produttività, crescerebbero i livelli occupazionali, si ridurrebbe l’inattività, migliorerebbe la qualità del capitale umano e il Paese potrebbe finalmente tornare a generare ricchezza reale.
In questa prospettiva, la silver economy non sarebbe più solo una voce di spesa o un mercato emergente, ma una risorsa strategica. I senior diventerebbero protagonisti di un ciclo virtuoso, i giovani avrebbero più opportunità e più guida, le imprese disporrebbero di competenze più solide e di un mercato del lavoro meno fragile. E l’Italia – un Paese che invecchia, ma che può scegliere come invecchiare – potrebbe trasformare un limite demografico in una nuova forma di sviluppo.

























