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Home - Approfondimenti - Analisi - Ascesa e caduta della scala mobile, dal “punto unico” all’accordo del 1992

Ascesa e caduta della scala mobile, dal “punto unico” all’accordo del 1992

di Giuliano Cazzola
4 Gennaio 2017
in Analisi

Nelle ‘’puntate’’ precedenti abbiamo ricordato le esperienze positive  degli anni ’70 e le innovazioni normative  e  contrattuali  introdotte in quella fase.  I sindacalisti e il sindacato erano in auge; ma somigliavano a quei viaggiatori su di una mongolfiera bucata: credono di andare più veloci mentre stanno precipitando.

Le “grandi conquiste” di quei tempi comminavano sul tapis roulant di un’inflazione a due cifre (spesso anche a due decine). Gli italiani di oggi  si sono ormai abituati a tassi d’inflazione sostenibili. Anzi, le autorità economiche e monetarie cercano di produrla artificialmente come fanno i gestori di impianti di sport invernali quando non nevica.  Hanno così dimenticato, anche i più anziani che trent’anni or sono “c’erano”, i processi di assuefazione determinati da processi inflativi crescenti e divenuti ormai strutturali. Si finiva per attendere ed apprezzare incrementi retribuitivi ricorrenti, ancorché finti perché gonfiati dall’inflazione.

Da noi operava persino un istituto retributivo – l’indennità di contingenza ovvero la scala mobile – di carattere ormai storico (visto che fu introdotto nell’immediato dopoguerra) che implementava automaticamente le retribuzioni in rapporto all’evoluzione del costo della vita. Si credeva che le busta paga diventassero più robuste, invece si trattava solo di un’illusione ottica, di un miraggio. L’Italia era lontana dai livelli drammatici, che, in quegli stessi anni, erano in atto in tanti Paesi sudamericani, ma il clima era drogato dall’euforia dell’inflazione. Per di più, una politica rivendicativa stolta ed opportunista aveva adottato per anni la linea degli aumenti contrattuali uguali per tutti. Anche il valore-punto dell’indennità di contingenza era stato vittima di quell’egualitarismo spinto. In proposito, nel 1975, era intervenuto, persino, un accordo sindacale, di cui erano stati protagonisti Luciano Lama e l’avvocato Gianni Agnelli (allora presidente della Confindustria), che introduceva il c.d. punto unico di scala mobile. In parole semplici, all’incremento del  costo della vita corrispondeva un “risarcimento” monetario uguale per tutte le categorie di lavoratori.

Ben presto tale procedura venne applicata anche ai meccanismi di rivalutazione automatica delle pensioni. Le  operazioni descritte si basavano su una filosofia molto in voga in quei tempi, ancorché parecchio discutibile: e cioè che tutti – dal dirigente al fattorino – pagavano nella stessa misura la medesima merce. Una considerazione, questa, che non teneva conto di un dato sostanziale di ogni politica retributiva: la salvaguardia, nel tempo, del valore delle retribuzioni, le cui differenze erano determinate da un diverso livello di professionalità, di responsabilità e di impegno dei singoli lavoratori.  Così, proprio quando l’inflazione correva di più, macinando punti su punti di scala mobile, le ricadute sui differenziali retributivi (irrinunciabili per un sindacato che voglia tutelare tutti i lavoratori rappresentati in ragione del loro valore professionale) erano devastanti, mortificando i livelli più elevati tra gli operai, i tecnici e gli impiegati.

Ad aggravare ancora di più la situazione era intervenuta la prassi, avviata con il contratto dei metalmeccanici del 1969, di rivendicare, negoziare ed ottenere, aumenti retributivi uguali per tutti. Una strategia, questa, portata avanti per anni in nome di un egualitarismo  – un po’ becero e sicuramente ideologico – sostenuto dalle componenti più radicali del sindacalismo cattolico, ma che aveva fatto breccia anche nella Cgil, in palese capovolgimento della linea di condotta tradizionale di quella organizzazione che aveva sempre difeso e valorizzato il “mestiere” dei lavoratori. La cultura dell’egualitarismo aveva anche un riferimento di carattere sociale, in quanto corrispondeva agli interessi del c.d. operaio massa, il famoso “terzo livello” addetto alla catena di montaggio, la figura professionale, tipica della grande fabbrica manifatturiera, connotata dall’organizzazione tayloristica del lavoro, del settore auto in particolare. Questi lavoratori erano giovani, appartenenti alla prima generazione dell’immigrazione dal Sud in direzione del triangolo industriale, erano stati tra i protagonisti della ripresa delle lotte operaie ed avevano conquistato una sorta di “centralità” nelle politiche del sindacato, come se fossero una specie di “classe generale”.

Non a caso, in quegli anni si attribuiva ad un noto dirigente comunista la seguente frase: “la classe operaia è a Torino, Torino è la Fiat, la Fiat è Mirafiori e la catena di montaggio”. In sostanza, attraverso un gioco di circonferenze concentriche che finivano per fissare l’attenzione su quella di dimensioni più ridotte, i destini del mondo del lavoro erano caricati sulle spalle di alcune centinaia di migliaia di dipendenti dell’industria, occupati nelle grandi fabbriche. Delle piccole (e dei lavoratori che vi erano impiegati) si parlava di imprese “marginali”, come tali ignorate persino dallo Statuto dei lavoratori del 1970, il provvedimento legislativo che ha caratterizzato un’intera stagione. A pensarci bene, tutta la politica del sindacato, compresa quella organizzativa – imperniata sul delegato di gruppo omogeneo eletto da tutti i lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato – aveva come riferimento la grande azienda, l’organizzazione tayloristica del lavoro e l’operaio adibito alla catena di montaggio, inquadrato come “manovale specializzato”.

E’ evidente che una politica salariale egualitaria favoriva questa figura professionale, la cui condizione, nei fatti, era presa a riferimento per la definizione degli aumenti contrattuali. A creare ancora più danni, questa impostazione politica ed organizzativa, già discutibile nell’industria, era stata pedissequamente adottata in tutti gli altri settori, compreso il pubblico impiego. Gli effetti complessivi furono devastanti, in termini di appiattimento retributivo, di avvitamento senza ritorno nei processi inflazionistici, di perdita di rappresentatività e di spazi regalati all’iniziativa retributiva dei datori di lavoro. Ci vollero anni per introdurre prime misure correttive. Tuttavia, anche  quella “follia” collettiva non era priva di una logica. In quegli anni, a partire dall’autunno caldo, i sindacati avvertirono la presenza e la voglia di emergere di una nuova classe operaia, ancora immatura, proveniente, come già ricordato, dall’immigrazione, insofferente, sul piano antropologico prima di tutto, di una organizzazione del lavoro che condizionava gli stessi movimenti delle persone a quelli delle macchine.

Non si dimentichi mai che, in quegli anni, la struttura della popolazione era simmetricamente opposta a quella dei nostri giorni: erano gli elettori giovani a determinare i risultati elettorali, non i pensionati o gli aspiranti tali come accade adesso. Nel bene o nel male, allora, i sindacati – sia attraverso le politiche rivendicative, sia mediante l’istituzione di organismi di rappresentanza diversi dalle tradizionali Commissioni interne che furono ben presto condannate alla quiescenza – scelsero e promossero anche una nuova classe dirigente nei posti di lavoro, che sostituì i leader operai degli anni delle sconfitte, delle divisioni e delle polemiche tra le varie sigle. Si trattò di un cambiamento importante, che seguiva quello intervenuto nella seconda metà degli anni ’50, con il passaggio dall’agricoltura alla società industriale. 

Purtroppo, per tante ragioni non tutte imputabili al sindacato, quel modello di rappresentanza non si è più rinnovato negli anni seguenti. I protagonisti della stagione “anni ‘70” sono invecchiati, hanno varcato la soglia della pensione, pretendendo di portarsi appresso, nelle nuove condizioni sociali, la “centralità” che era stata loro riconosciuta al “tempo degli Unni”.  A quel punto, si è trattato soltanto di un’usurpazione di potere. Ma questo è tutto un altro discorso. Tornando invece alla scala mobile, prima o poi era diventato  indispensabile trovare, anche da noi, un S. Giorgio che avesse il coraggio di sfidare ed infilzare il drago che alimentava e stabilizzava l’inflazione. Ci vollero molti anni e contrasti durissimi per venirne a capo. Ogni documento, nella Cgil e non solo, doveva per forza finire con l’impegno del sindacato a difendere il potere d’acquisto delle retribuzioni “a partire dalla scala mobile”. Ma questa è una storia che merita di essere raccontata in tutti i suoi passaggi. A denunciare gli effetti di trascinamento e di consolidamento dell’inflazione prodotti dal sistema di indicizzazione automatica delle retribuzioni fu un economista di sinistra, Ezio Tarantelli. Quest’ultimo – poi assassinato dalla Br –  non riuscì ad essere profeta in patria, ma seppe farsi ascoltare da Pierre Carniti, il quale individuò nella proposta di Tarantelli l’occasione per il sindacato di “fare politica” in proprio.

 

 

Già nel 1983 il ministro del Lavoro Enzo Scotti riuscì a negoziare una revisione al ribasso di quell’infernale meccanismo. Ma quell’accordo segnò a suo modo un limite oltre il quale il Pci non avrebbe più “coperto” la Cgil. Iniziò così una fase molto critica e complessa. La tempesta, però, era in agguato: la sua “furia selvaggia” si scatenò concentrata in un breve arco di tempo. La fase acuta durò dal febbraio al maggio del 1984, poi ci fu un momento di armistizio, ben presto interrotto con la ripresa delle ostilità l’anno dopo. La prima fase fu caratterizzata dal famoso “decreto di S. Valentino”, il provvedimento con cui il Governo Craxi intervenne sulla dinamica della scala mobile; la seconda riguardò la battaglia referendaria che ne seguì, nel 1985. Ambedue queste battaglie – che spaccarono il Parlamento, la sinistra e il sindacato – si combatterono ad ogni livello nel Paese, ma la prima linea attraversava la Cgil, in cui le componenti vivevano da “separate in casa”: i comunisti convocavano manifestazioni oceaniche in piazza, i socialisti si riunivano in alcune centinaia in qualche sala chiusa. E’ inutile chiedersi se nelle loro posizioni pesasse di più la convinzione di essere nel giusto o il forte richiamo dell’identità. Il fatto è che tennero duro, nonostante tutto. Anche l’atteggiamento dei comunisti fu, in generale,  responsabile. Probabilmente, poiché loro sentivano  molto la disciplina di partito erano disposti a riconoscere questo diritto anche agli altri. A loro sembrava normale che  un dissenso radicale, a livello partitico, comportasse ricadute tanto serie nel sindacato. Tutto sommato, però, la costituzione materiale della Cgil funzionò anche in quei mesi di assoluto black out. 

I comunisti usarono un’intelligente prudenza, come se avessero fatto tesoro dell’esperienza del 1948; non si avvalsero mai del diritto della maggioranza in tutti gli organi dirigenti per  decidere e proclamare degli scioperi che impegnassero la sola Cgil (ci furono solo astensioni dal lavoro “spontanee”, fatte a caldo, col solito metodo). Dove furono in grado, i comunisti si servirono di consigli di fabbrica (i c.d. autoconvocati), al punto di metterne insieme un gruppo a cui era imputata l’adozione delle iniziative di lotta. I delegati appartenenti alle altre organizzazioni sindacali erano esibiti come tante Madonne pellegrine. Poi c’erano i soliti comitati di intellettuali, pronti a protestare contro l’attacco alle libertà sindacali. In Parlamento i gruppi del Pci e della Sinistra indipendente (composta dal fior fiore degli economisti ) facevano il boicottaggio in sede di conversione del decreto: come se ci fosse da compiere un atto di fede, tutti si iscrissero a parlare ed intervennero nella discussione. Bisognerebbe riguardare oggi quelle dichiarazioni ed esibirle ai loro autori, nel frattempo divenuti esponenti delle Istituzioni, ministri, praticanti di cultura liberale.    Poi c’era la piazza. Si svolgevano grandi manifestazioni, rigorosamente fuori dell’orario di lavoro. A Roma, alla fine di marzo, arrivarono a centinaia di migliaia (si parlò di un milione).

Enrico Berlinguer, leader indiscusso del Pci, li attese sul Lungotevere e al loro passaggio esibì la prima pagina dell’Unità dove stava un titolo a caratteri cubitali.” Eccoci”. Uno stuolo di registi si mise a disposizione per filmare la manifestazione. Ne uscì un lungometraggio, ben fatto, lirico e appassionato: una piccola “Corazzata Potemkin” nostrana. Quando ci fu da pagare il conto, mesi dopo, la Cgil  era tornata di nuovo unita. Ci fu qualche malumore dei socialisti, poi non se ne seppe più nulla. Certamente, qualcuno aveva chiuso un occhio. In quel giorno radioso dell’orgoglio comunista,  Lama tenne il discorso centrale della manifestazione, insieme ad alcuni delegati, tra i quali una operaia comunista modenese, dai capelli rossi come Pel di carota, e un metalmeccanico bresciano iscritto alla Cisl. Come Dio volle, la buriana passò, man mano che si avvicinava il momento della conversione del decreto. All’inizio di maggio Lama e Del Turco trovarono il modo di ricompattare la Cgil su di una piattaforma comune, inventata soltanto per ragioni interne, giacchè i suoi contenuti erano assolutamente fuori del tempo e furono ben presto dimenticati.

La Confederazione, in ogni caso, riuscì a riprendere fiato. Per pochi mesi, però. Dopo la morte di Berlinguer, avvenuta a Padova nel corso della campagna per le elezioni europee (che tra l’altro furono un successo per i comunisti, che ottennero il 33% dei suffragi) il Pci ritenne giusto  onorarne la memoria raccogliendo le firme per un referendum abrogativo. Venne riattivata, allora, la logica dello scontro frontale tra l’universo comunista e i suoi “compagni di strada”, da un lato, Cisl, Uil, socialisti della Cgil, partiti della maggioranza, dall’altro. Contro ogni aspettativa (a prova dell’esistenza di un paese migliore della sua classe politica) vinsero nettamente i no.

Il contraccolpo in Cgil fu pesante. Fortuna volle che fosse la Confindustria a levare le castagne dal fuoco con un magistrale colpo di teatro. Alle ore 14 in punto del lunedì (allora si votava ancora per due giorni), mentre si chiudevano i seggi, arrivò alle sedi delle Confederazioni una lettera di disdetta dell’accordo sull’indennità di contingenza. La Confindustria non aveva voluto turbare la votazione e aveva colpito prima ancora che iniziasse lo spoglio, come volesse scegliere una “terra di nessuno” destinata a durare per un attimo. I sindacati si trovarono di nuovo in trincea contro il naturale avversario. Lama  impedì che  la Cgil s’inviluppasse nelle polemiche e riprese in mano la situazione, riannodando i rapporti con le altre organizzazioni sindacali. Iniziò il tormentone  della fase finale della scala mobile. Dapprima si negoziò un altro meccanismo con il Governo in qualità di datore di lavoro dei pubblici dipendenti. Tale intesa raccolse anche l’adesione della Confindustria e di quasi tutte le altre organizzazioni padronali. Così il Governo potè recepirla con un provvedimento legislativo ed estenderla a tutto il mondo del lavoro dipendente. La legge aveva delle scadenze. Per un paio di volte il Governo prorogò la disciplina legislativa, fino a quando, nel 1991, decise che  non avrebbe ulteriormente proceduto su questa strada e volle riconsegnare la materia alle parti sociali.

Nel luglio del 1992,  nel protocollo triangolare sottoscritto per iniziativa del Governo Amato (ne abbiamo ampiamente parlato in un altro articolo dedicato al profilo di Bruno Trentin, suscitando peraltro un dibattito tra i protagonisti di allora), la scala mobile scomparve di scena; mentre nel 1993, nel patto di concertazione  promosso dal Governo Ciampi si addivenne, finalmente, ad un nuovo meccanismo di contrattazione delle retribuzioni, del quale non faceva parte alcun modello di rivalutazione automatica dei salari rispetto al costo della vita. Ma  anche questa vicenda merita di essere narrata con maggiori dettagli, perché il modello di contrattazione definito nel Protocollo del 1993 ha tenuto la scena fino ad oggi, sia pure con innovazioni e modifiche. Una narrazione puntuale e documentata di questa fase è stata scritta, in un suo saggio, da un attento giornalista come Massimo Mascini (Profitti e salari. Venti anni di relazioni industriali: 1980-2000). Si tratta solo di chiedersi, oggi,  se l’intesa di novembre scorso tra le organizzazioni sindacali dei metalmeccanici e la Federmeccanica abbia davvero ‘’svoltato’’ rispetto all’impostazione di oltre vent’anni fa. Se così fosse, una storia iniziata in quella categoria  vi ha trovato una conclusione ed una ripartenza.

 

Giuliano Cazzola

Tags: Storia delle relazioni industriali
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Ex Sindacalista

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