Bisogna affrontare la questione degli spioni seriali in rete con la consapevolezza che dall’inizio le piattaforme online sono state progettate e costruite da maschi e per i maschi, e questo sicuramente ha costituito un ostacolo al fatto che le donne potessero trovarvi una dimensione di agio. Pensiamo a Facebook, che è stato creato da Mark Zuckerberg traendo ispirazione da un sito che permetteva agli utenti di scegliere tra due foto di donne e votare la più attraente. La misoginia si manifesta prevalentemente attraverso i social, che sono dotati di standard minimi relativi a termini e condizioni vincolanti sui comportamenti ritenuti accettabili sulle piattaforme. Quando sono condivisi contenuti che violino i detti standard, esse dovrebbero quindi responsabilizzarsi, introducendo meccanismi di segnalazione per la rimozione dei contenuti dannosi. Ma è evidente che questo non basta infatti per l’inadeguatezza dei rimedi a disposizione contro la violenza online, anche perché nelle piattaforme non vi è ancora una categoria specifica disponibile per l’odio indirizzato nei confronti delle donne, solo considerato nella categoria di “contenuto dannoso per gli adulti”. Su Facebook il genere non è presente come categoria, al di là della politica di hate speech e degli Standard Comunitari – dove compare nei “termini imprecatori di genere femminile” all’interno della politica di bullismo e molestie. Su Twitter è possibile solo effettuare una segnalazione per abuso/molestia. Instagram nelle sue policy proibisce l’hate speech e gli insulti misogini. La piattaforma non predispone alcuna sanzione nei confronti dell’utente violento, addirittura il contenuto è visto come isolato e innocuo.
La furbizia sta poi delle violenze perpetrate con messaggi in modalità scomparsa, per cui una volta aperti non è possibile rintracciarne gli autori, oppure le molestie sono compiute in chat privata compiute da account falsi. Poi, vero è che è stato riscontrato un approccio inappropriato da parte delle autorità, che sottovalutano la violenza perpetrata online e i suoi effetti sulla vita reale delle persone che la subiscono. Recentemente la questione è stata approfondita da interventi in merito alle iniziative UE sull’Agenda digitale, dove si è dimostrato che è online che il malessere personale per un rifiuto vissuto come fallimento trova terreno fertile per essere deresponsabilizzato e ricondotto a un’interpretazione deviata della realtà, dove le donne sono il male assoluto, distruttrici della specie: “Le comunità online sono viste come sfogatoi, gruppi nei quali gli utenti maschi condividono le proprie esperienze personali negative di natura sentimentale e sessuale – spiega Antinori -. Subentra una fase di confidenza, dove si fortifica il legame e inizia a crearsi una relazione un po’ più radicalizzata” con un certo modo di vedere il mondo. Poi, il salto di qualità: “Dalle esperienze vissute in prima persona, questa visione viene estesa anche a quelle potenzialmente vivibili e all’esistente, quindi a tutto il mondo”.
L’Unione europea nel 2021 ha dato avvio a un progetto di iniziativa legislativa, presentato dalle commissioni per i diritti delle donne e le libertà civili, per un inquadramento giuridico della cyber-violenza di genere e per fornire un livello minimo di protezione e “riparazione” per le vittime. Solo attraverso un cambiamento culturale profondo potremo dirigerci verso una visione di futuro migliore, collaborativa e paritaria. Ma abbiamo anche il dovere di informarci e magari collaborare come associazioni e istituzioni perché la questione femminile non subisca ulteriori ritardi culturali. E a proposito, approcci e azioni diverse sono intrapresi da Amnesty International Italia per il contrasto alle discriminazioni e all’hate speech online. Tra le attività principali vi sono la Task Force Hate Speech e i percorsi educativi portati avanti nelle scuole. La task Force Hate Speech è un gruppo di attiviste e attivisti di Amnesty International Italia che quotidianamente monitora il web, intervenendo nei commenti online dove si accendono i discorsi d’odio. Il progetto è nato in seguito a una fase di sperimentazione avvenuta nel 2016, dove per la prima volta viene ideata una forma di attivismo organizzata e reattiva sul web per estendere la battaglia per la difesa dei diritti umani al mondo online.
La crescita dell’importanza e dell’utilizzo dei social network come mezzi d’interazione e di diffusione dell’informazione nel nostro Paese ha portato la sezione italiana dell’Organizzazione ad allargare la base di attivismo impegnata in questa attività, che avvicina costantemente nuovi attivisti legati dal desiderio di attivarsi, in prima persona, contro la diffusione dell’odio. Attraverso la loro azione, utilizzando il potere della parola per contrastare i discorsi offensivi che possono incitare agli abusi e alla violenza, gli attivisti della Task Force partecipano al processo di cambiamento che l’Organizzazione vuole produrre nella società e nella vita delle persone, diventando gli attori e moltiplicatori di un modo di fare attivismo in grado di ampliare la comunità di difensori dei diritti umani.
Il terreno d’azione della Task Force sono i social network: l’attivazione è focalizzata sui commenti che esprimono odio e intolleranza nei confronti dei soggetti-bersaglio dell’hate speech. L’attività della Task Force è organizzata a partire dalla condivisione di strumenti di supporto, documentazione aggiornata e ore di formazione sulle tematiche di intervento, insieme ad approfondimenti sulle tecniche di comunicazione pacifica e a strategie di stress management, per evitare il burn-out. Gli attivisti, di ogni fascia di età e provenienza geografica, sono costantemente collegati tra loro da remoto e si supportano a vicenda durante le attivazioni, condividendo le proprie esperienze e buone pratiche: il legame del gruppo rappresenta la vera forza di questa forma di attivazione. La sezione italiana di Amnesty International anche nelle sue attività educativo-formative è in prima linea contro l’odio, contrastandone la diffusione attraverso l’impegno concreto delle sue Scuole Amiche dei Diritti Umani, dei bambini e delle bambine della rete Amnesty Kids, nonché di specifiche categorie professionali che, con Amnesty Italia, lavorano per una formazione adeguata contro il linguaggio e i crimini d’odio. Sin dall’infanzia, infatti, è importante educare i bambini e le bambine a un uso responsabile delle parole e a un utilizzo consapevole dei social network – per quanti già si avventurino su internet – e Amnesty Italia ha sviluppato per la fascia d’età 8 – 13 anni il percorso “I diritti e le parole” (https://www.amnesty.it/ pubblicazioni/i-diritti-e-leparole/).
Per quanto riguarda il mondo dell’alta formazione e della formazione professionale, importanti sono le partnership che ci supportano nella lotta all’odio. L’Istituto di Politica Internazionale (ISPI) di Milano, dove viene realizzato un corso con l’obiettivo di fornire gli strumenti concettuali per riconoscere fenomeni quali hate speech e hate crime, e per porre in essere strategie efficaci di analisi e contrasto; il Consiglio Nazionale Forense (CNF) con il quale si sviluppano regolarmente seminari formativi per supportare gli operatori del diritto nel riconoscimento dei pregiudizi (bias) che sono alla base del discorso d’odio e per ricostruire un equilibrio fruttuoso tra libertà di espressione e discorsi di odio; infine Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori del Dipartimento della Pubblica Sicurezza) con il quale Amnesty Italia collabora per la formazione sui diritti umani e per il contrasto ai crimini d’odio. Ecco, diamoci da fare insieme.
Alessandra Servidori