Il Governo ha impostato in modo discutibile il confronto con il sindacato sulla riforma del lavoro , dichiarando che, per affrontare i nodi dell’instabilità del lavoro, delle difficoltà di ingresso dei giovani, dell’estensione degli ammortizzatori sociali, occorresse por mano alla flessibilità in uscita, ed in particolare al regime delle tutele per i licenziamenti individuali, secondo l’assunto per cui la eccessiva protezione sarebbe di freno alla crescita e la causa della scarsa dinamica della domanda di lavoro.
Lo strumento del licenziamento individuale costituisce solo una minima parte del più ampio sistema della flessibilità in uscita e di risoluzione del rapporto di lavoro. Vi sono numerose altre situazioni e tipologie contrattuali, connotate dalla temporaneità del rapporto (contratti temporanei, somministrazione, collaborazioni, appalti) che rispondono alle esigenze organizzative delle imprese e che offrono margini molto elevati di gestione degli organici. Vi è inoltre la disciplina del licenziamento collettivo che risponde in modo specifico alle esigenze di adeguamento degli organici che, come noto, consente alle imprese oltre i 15 addetti di ridurre gli organici a causa di difficoltà economiche o organizzative, mediante l’attivazione di una specifica procedura di esame con i sindacati.
Siamo in presenza di una persistente e forte crisi, che comporta il rischio della perdita del lavoro per migliaia di lavoratori. Il sindacato fa bene quindi, oltre a difendere il regime di tutela contro i licenziamenti individuali illegittimi, ad evidenziare nel contempo gli altri aspetti critici della riforma, tra cui l’insufficiente copertura degli ammortizzatori sociali (la nuova Aspi dimezzerà i periodi di copertura oggi offerti dalla mobilità) e la necessità di rafforzare le politiche attive del lavoro. Occorre, insieme all’impegno ineludibile per la crescita e lo sviluppo, rilanciare le politiche del lavoro, dalla facilitazione dell’ingresso al lavoro mediante l’apprendistato, alla stabilizzazione delle forme contrattuali atipiche, al sostegno nella ricerca di nuove opportunità di lavoro, in una parola alla valorizzazione del capitale umano.
I licenziamenti individuali sono possibili per giusta causa e giustificato motivo
Nel nostro ordinamento, già con la legge 604 del 1966 si è affermato il principio della giusta causa e del giustificato motivo necessario per procedere alla risoluzione del contratto di lavoro da parte dell’impresa. E’ un limite alla libertà di recesso e alla discrezionalità dell’impresa, basato sul bilanciamento necessario con la garanzia della dignità e stabilità del lavoro
Si tratta di un principio costituzionale, laddove all’art. 41 si dichiara che la libertà economica deve svolgersi nel rispetto della funzione sociale dell’impresa.
Il principio di giusta causa e giustificato motivo viene sorretto dal regime di tutela di tipo obbligatorio indennitario della legge 604, che si è rafforzato con l’art.18 della legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori, che ha introdotto il regime della tutela reale, ovvero del reintegro, in relazione alla dimensione di impresa.
Si è così determinata la distinzione tra tutela reale, consistente nella restituzione del bene “rapporto di lavoro” al lavoratore illegittimamente licenziato, a valere per le aziende al di sopra dei 15 dipendenti, sul presupposto della sostenibilità economica e organizzativa da parte loro di tale tipo di tutela, e tutela obbligatoria, che interessa invece l’insieme delle imprese di piccole dimensioni, le quali sono tenute al risarcimento di natura indennitaria da 2,5 e 6 mensilità.
La distinzione tra le fattispecie di licenziamento individuale, discriminatorio, disciplinare e economico, richiamata nella riforma del lavoro, codifica lo schema previsto dalla legge 604 e precisato nella giurisprudenza di questi anni.
Per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori, si tratta di fattispecie che si arricchisce sempre più, in relazione all’evolversi del diritto antidiscriminatorio a livello europeo e in parallelo con l’affermarsi dei nuovi diritti di cittadinanza, dalla parità tra uomo e donna, dalle discriminazioni per età, a quelle di carattere religioso, e quelle riconducibili all’etnia e alla nazionalità.
La legge ribadisce la nullità di tali licenziamenti, in quanto colpiscono i valori fondamentali della personalità, e l’obbligo al ripristino della situazione di status quo ante, con la restituzione del bene lavoro al lavoratore colpito.
Per quanto riguarda i licenziamenti ingiustificati di tipo disciplinare, l’ipotesi del Governo prevede il mantenimento dell’obbligo del reintegro in tutti i casi di non commissione da parte del lavoratore del comportamento contestato, o per la sua riconducibilità alle casistiche per le quali il Ccnl preveda sanzioni conservative e non risolutive del rapporto (si tratta delle mancanze di minore gravità).
Per gli altri casi residuali viene introdotta la novità dell’indennizzo economico.
Vi sono però ulteriori novità che riguardano i vizi di forma (assenza della forma scritta) o di procedura (assenza della contestazione disciplinare preventiva ex art. 7 legge 300), per i quali è previsto un indennizzo specifico, in luogo della sanzione di nullità, attualmente vigente.
Per quanto riguarda i licenziamenti ingiustificati di tipo oggettivo o economico, la scelta del Governo è netta: il giudice potrà comminare la sola sanzione di tipo indennitario. Per impedire possibili abusi o aggiramenti della norma, si chiarisce che, qualora il motivo economico sia inesistente e celi ragioni di natura discriminatoria, sarà apprestata la tutela del reintegro.
Il motivo economico oggettivo è riferibile da un lato a possibili situazioni di crisi, dall’altro al regolare funzionamento organizzativo. L’impresa può addurre alternativamente i motivi economici riferiti all’andamento dei ricavi o delle vendite, o quelli relativi all’organizzazione e al dimensionamento dei reparti o uffici in termini di numero di addetti e di professionalità ritenute necessarie o idonee. La previsione dell’esclusiva tutela obbligatoria per questo tipo di licenziamento, rende evidente la scelta di allargare le maglie della discrezionalità di impresa.
Per queste ragioni, in una logica di adeguamento e di efficienza dell’art. 18, la Cisl ha proposto di assimilare il licenziamento economico individuale a quello di tipo collettivo, assegnando al sindacato e alla rappresentanza sindacale in via preventiva un ruolo forte proprio per entrare nel merito delle scelte dell’impresa, per valutare la fondatezza dei motivi addotti e eventualmente per individuare soluzioni alternative al licenziamento e, in ultima istanza, per svolgere un tentativo di composizione “contrattuale”. In una parola per comporre correttamente interessi diversi, nella sede, con modalità e strumenti appropriati.
Per dare senso e per valorizzare questa fase di prevenzione del licenziamento e di tentativo di composizione, è tanto più necessario che il successivo controllo giudiziale possa disporre anche dello strumento del reintegro, e non solo dell’indennizzo.
Sarebbe assai vano, infatti, qualunque sforzo del sindacato di messa alla prova delle ragioni dell’impresa e di ricerca di soluzioni alternative, se la stessa impresa può fondare il proprio convincimento potendo contare in anticipo sul solo rischio dell’indennizzo, e non anche sul possibile obbligo a rivedere la propria scelta.
Poiché il giudice dovrà decidere anche sulla base di quanto emerge nella fase della conciliazione preventiva, potrà con maggiore aderenza alla realtà decidere la giustizia del caso singolo, anche apprezzando le circostanze del contesto aziendale (esempio la dimensione dell’impresa, con la conseguente maggiore o minore possibilità di sopportare ad esempio lo sforzo organizzativo di ricollocazione del lavoratore in posizione professionale alternativa).
Non va dimenticato che si interviene sulla durata del processo, che presenta anomalie e incertezze correlate all’organizzazione, al dimensionamento e al funzionamento degli Tribunali, e che vengono introdotte soglie molto restrittive relative al numero massimo di retribuzioni arretrate, che spostano dall’impresa al lavoratore il rischio di durata del processo.
Si comprende tanto più la necessità che i regimi di tutela, tra reintegro e indennità, siano equilibrati e non iper-costrittivi per una sola parte, quella più debole.
E’ un principio basilare di bilanciamento dei rapporti di forza negoziali che, se correttamente impostati, possono aiutare anche la crescita della cultura della partecipazione e delle responsabilità, che riguarda sia i lavoratori e le rappresentanze sindacali, sia le imprese e le loro rappresentanze.
Si tratta in definitiva, per il Governo, di fare uno sforzo e un bagno di realtà, scrollando di dosso i pregiudizi ideologici o le semplificazioni a-scientifiche, e di ricercare soluzioni di equilibrio e di coesione sociale.
E’ un errore imputare a diritti e tutele le presunte rigidità e ingessature del nostro sistema. Diritti e tutele sono piuttosto indicatori di civiltà, l’esserne dotati rende diverso e migliore il nostro modello sociale, italiano-europeo, da quelli presenti in altre parti del mondo.
di Nicola Alberta, segretario generale della Fim Cisl Lombardia


























