Alessandro Riello, veronese, imprenditore di rilievo nazionale con la sua Aermec (azienda tutt’altro che ‘’provinciale’’, anzi, fortemente internazionalizzata), politicamente tendente al centro sinistra, fa parte della schiera foltissima di veneti che ha votato Si al referendum di domenica scorsa. In questa intervista al Diario del Lavoro spiega di aver avuto molti dubbi, ma che alla fine Luca Zaia lo ha convinto. Ecco come.
Riello, lei non è stato uno dei fautori del referendum della prima ora, poi ha cambiato idea. Per quale motivo?
Sono stato dubbioso fino all’ultimo, anche perché, come e’ noto, non ho simpatie leghiste. E tuttavia alla fine, come tantissimi altri, ho deciso di andare a votare e di votare si. Questa svolta, diciamo, e’ avvenuta quando mi e’ stato chiaro che nessuno intendeva parlare di secessione, ma di autonomia della nostra regione. E’ stato questo il punto centrale nel ragionamento di Luca Zaia che ha portato il Si ad avere una così ampia maggioranza.
Il Veneto, lei dice, non ha pulsioni secessioniste, ma in passato ci sono state.
Vero, ma erano fenomeni ‘’importati’’ dalla Lombardia, da noi il tema della vecchia secessione leghista non mai avuto presa. Ci sono stato episodi di colore, ma politicamente poco significativi. Diverso è il tema posto da questo referendum. Il Veneto è circondato da regioni a statuto speciale, il Trentino da un lato e il Friuli dall’altro. In queste regioni gli imprenditori vedono che fare impresa e’ più facile, vengono molto supportati. Le faccio un caso personale: mio figlio ha messo su una piccola impresa, ma è andato a farlo a Rovereto, dove ha trovato condizioni ambientali per realizzare quegli investimenti che da solo, qui in Veneto, non avrebbe avuto la forza di fare. La provincia autonoma gli ha dato la possibilità di farlo, e dopo un anno ha una sua azienda con 15 dipendenti. Ecco come avere una regione che abbia la possibilità di gestire direttamente le proprie risorse fa la differenza. Ed è questo che ha spinto molti a votare si. Nessuno vuole un Veneto staccato dall’Italia, ma tutti vogliamo un Veneto che abbia la possibilità di gestire le risorse che riesce a generare per la propria crescita.
Ma così non c’e’ il rischio di interrompere la solidarietà nazionale con le regioni meno ricche, come il mezzogiorno?
Dei problemi del Sud sento parlare da quando ero presidente dei Giovani industriali di Confindustria, mill’anni fa. Nel frattempo, grandi masse di risorse sono state spostate e ridistribuite dalle regioni del centro nord a quelle del sud, e tuttavia il Mezzogiorno non e’ mai riuscito a sollevarsi dalle sue difficoltà, dalla sua deindustrializzazione, dai suoi bassi livelli occupazionali. Nessuno nega che in uno stato complesso ci siano differenze, e che queste richiedano una sorta di mutuo soccorso. Ma, forse, non è questione di soldi, altrimenti il sud avrebbe già risolto da un pezzo. Inoltre, io credo che non sia più nemmeno corretto concentrarsi sulle divisioni tra nord e sud, la vera ‘’frattura’’ è piuttosto quella che corre lungo l’Appenino, tra Est e Ovest. Basta pensarci un attimo, e ci si rende conto che da un lato abbiamo l’Emilia Romagna, la regione modello di sviluppo per eccellenza, e dall’altro la Toscana, assai meno dinamica; da un lato le Marche, una delle regioni più sviluppate dal punto di vista industriale, e dall’altro il Lazio; o, altro esempio, consideriamo la distanza economica e industriale che corre tra il modello di sviluppo della Puglia e la Calabria, e ci renderemo conto che non si può parlare di nord e sud semplicemente.
E che mi dice del ‘’modello veneto’’?
Noi siamo cresciuti perché non abbiamo avuto grandi industrie, ma solo una miriade di piccole imprese. In Piemonte, in Lombardia, tutto ruotava attorno a grandi industrie, come la Fiat o la Pirelli: e le altre imprese venivano su nella loro ombra, come fornitori, con un mercato assicurato sotto casa. In Veneto, invece, in mancanza di colossi cui appoggiarsi, abbiamo dovuto prender su le nostre valigie e andarci a cercare i mercati in giro per il mondo. Questo ha fatto si’ che nella nostra regione crescesse un tessuto imprenditoriale molto dinamico. Un fenomeno simile a quello che si e’ creato nelle Marche, appunto, che oggi e’ una delle regioni industriali più evolute d’Italia. Ora la nostra regione ha bisogno di fare un ulteriore salto di qualità. Infatti, le spinte autonomiste nascono con la crisi, che ha compresso le risorse.
Come spiega il fatto che il voto sia stato diverso tra grandi centri e provincia, con uno scarso entusiasmo nei primi e un semi plebiscito per il Si nei secondi?
Forse nelle grandi città c’e’ stato anche un po’ di snobismo verso certi richiami, ma le assicuro che i miei amici veronesi sono andati tutti a votare, e sono tutti classe dirigente.
Ma ora cosa vi aspettate che accada, in concreto?
Siamo ben coscienti che non si possono fare altre regioni a statuto speciale, e quindi siamo curiosi di vedere come andrà a finire. Con il referendum Zaia ha avuto un mandato in bianco a trattare, vediamo che cosa porterà a casa, che proposte usciranno. E’ evidente che in questa partita il governatore si gioca come minimo la faccia: ha portato i veneti a votare in massa, ora siamo tutti con gli occhi puntati sulle sue prossime mosse.
E se non riuscisse a portare a casa nulla?
Se non riesce, e’ un bel problema. Non solo per Zaia o per il Veneto, ma per tutta la classe politica. Questo voto non ha avuto una connotazione politica univoca, era trasversale, e infatti non credo avrà una riproduzione su scala nazionale alle prossime elezioni del 2018. Ma se il referendum non porterà risultati, questo segnerà un ulteriore distacco della gente dalla politica. Di qualunque colore.
Nunzia Penelope