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Home - Approfondimenti - Interviste - Buonerba (Cisl), investire sulla formazione professionale per un’economia della conoscenza

Buonerba (Cisl), investire sulla formazione professionale per un’economia della conoscenza

di Tommaso Nutarelli
29 Novembre 2017
in Interviste

La formazione professionale costituisce uno dei temi rilevanti per ottenere un mercato del lavoro decente. Investire su di esse significava formare delle professionalità che poi possono generare un alto valore aggiunto dal quale tutta la società può trarre beneficio

Di tutto questo ne abbiamo parlato con Michele Buonerba, segretario generale della SGBCISL, dopo l’esperienza al WorldSkills di Abu Dhabi 2017.

Che cosa è WorldSkills?

WorldSkills è un’organizzazione di livello internazionale nata nel 1950, con lo scopo di promuovere la formazione professionale e tecnologica. È presente in 79 nazioni, e comprende 59 “mestieri”, che vanno da quelli più tradizionali alle professioni legate alla new technology. C’è inoltre la WorldSkills Competion, che non è altro che una olimpiade delle professioni a cadenza biennale, che quest’anno si è tenuta a Abu Dhabi. I giovanissimi partecipanti si sono sfdati in questi 59 mestieri. Per fare qualche esempio si va dal falegname, all’elettrauto e alla parrucchiera, fino a chi opera con le stampanti 3D.  La competizione vera e propria consiste nel portare a termine un lavoro, che deve essere eseguito secondo certi criteri entro un preciso arco di tempo, che alla fine viene valutato da degli esperti che ogni paese partecipante nomina in base a delle competenze che devono essere valutate. Naturalmente WorldSkills è divenuto un evento di matrice internazionale nel corso del tempo, perché per tutti gli anni ’50 e ’60 molti degli attuali 79 stati non erano presenti.

Quali sono i prerequisiti e il percorso che i concorrenti devono avere e sostenere per partecipare a WorldSkills?

I concorrenti sono giovanissimi, l’età massima è 22 anni, e possono partecipare alla competizione una sola volta. Prima di tutto devono superare i campionati nazionali, che per l’Italia si tengono ogni due anni in Alto Adige. Il passo successivo consiste in un percorso di formazione che, compresa la preparazione alla competizione nazionale, dura due anni. La Provincia Autonoma di Bolzano contribuisce alle spese di formazione assieme ad altri sponsor tra i quali l’Ente Bilaterale dell’Artigianato. Complessivamente viene investita una cifra stimabile intorno ai 25mila euro a candidato. Durante la fase di preparazione il candidato viene accompagnato da un esperto del suo mestiere che nel caso dell’Alto Adige è un maestro artigiano. La fase di formazione si basa su degli standard qualitativi altissimi, che valgono per tutti i paesi, e che il comitato scientifico di WorldSkills aggiorna costantemente. L’aggiornamento costante riguarda anche gli esperti che poi, durante la competizione internazionale, sono chiamati a valutare i concorrenti.

Quale è stata la performance dell’Italia al WorldSkills?

Su 79 nazioni ci siamo piazzati al 6° posto. Il dato su cui riflettere è che solo l’Alto Adige ha rappresentato l’Italia e che pertanto, visto che i concorrenti erano paesi interi, anche di grandi dimensioni e con mezzi economici nettamente superiori ai nostri, possiamo definire questo risultato straordinario.

E secondo lei questo a cosa è dovuto?

Partiamo prima di tutto da come la formazione professionale è strutturata in Alto Adige. Qui il sistema è molto simile a quello presente nei paesi di lingua tedesca, dove l’apprendistato viene costantemente monitorato, e dove si pone attenzione al fatto che il ragazzo faccia vera formazione soprattutto pratica e in azienda. In quei paesi i mestieri funzionano in modo simile agli ordini professionali da noi. Chi vuole esercitare una certa professione deve dimostrare di conoscere il mestiere e anche sottoporsi ad un costante aggiornamento. Stiamo dunque parlando di un sistema che investe molto sulla risorsa umana, attento a fornire al mercato delle figure professionali qualificate anche a tutela dei consumatori. Attraverso una serie di accordi territoriali, abbiamo condiviso con la rappresentanza delle imprese che investire sull’apprendistato significava investire nel futuro e nel progresso della nostra te

Abbiamo inoltre reso operativo il principio riconosciuto dallo Stato secondo il quale la formazione professionale può successivamente diventare anche accademica. Per questo motivo, superando un esame, lo studente che ha concluso l’apprendistato può accedere alla maturità professionale e quindi, se lo ritiene, proseguire poi gli studi anche a livello universitario. Infine di rilievo è la figura del maestro artigiano. A differenza dei paesi di lingua tedesca, in Alto Adige è un titolo onorifico che è che si ottiene con un ulteriore percorso di formazione successivo all’apprendistato. Il consumatore potrà così avere la certezza che l’impresa alla quale si affida gli garantisce un’elevata competenza.

Da quello che mi dice, mi pare di capire che nel resto del paese la situazione della formazione professionale sia meno rosea. Quali crede che siano i motivi?

Prima di tutto riscontro una scarsa volontà di investimento nelle risorse umane. Certo non si può generalizzare, ma in linea di massima si può dire che i mestieri tradizionali sono lasciati al loro destino. Ormai, in molte regioni, sono svolti in buona parte dagli stranieri. Lo dico non certo per un mio atteggiamento xenofobo, ma in relazione al fatto che essi potrebbero dare un futuro certo ai nostri giovani. Investire nelle competenze è una forma culturale prima che economica, ma il sistema della formazione e delle imprese non coglie appieno questa opportunità. Sarebbe rilevante anche in funzione della crescita del PIL in un contesto di occupazione di qualità.

 La diffusione dell’apprendistato di primo livello è bassissima, basti pensare che il 93% degli apprendisti di primo livello si trova in Alto Adige. In altre regioni ho l’impressione che questo contratto venga attivato semplicemente per ottenere un risparmio sul costo del lavoro dal momento che esiste una decontribuzione totale sotto i 9 dipendenti e ridotta per le imprese più grandi. Ho notizia che non vengano monitorati i tutor aziendali e questo impedisce di avere un controllo di qualità sul percorso formativo. La bassa diffusione dell’apprendistato di primo livello e più in generale una carenza di cultura della formazione professionale, sono causa di un forte deficit per quanto riguarda la parte pratica del percorso di apprendimento. Per questo motivo non dobbiamo sorprenderci se la disoccupazione giovanile si attesta in Italia introno al 40%, mentre in Alto Adige non arriva all’8%. Consideriamo che ogni anno più di un milione di profili professionali richiesti dalle aziende non vengono reperiti sul mercato del lavoro.  Anche questo dato ha una diretta correlazione con la qualità sia della formazione di base che di quella continua.

Quali sono gli elementi da correggere?

Prima di tutto rivedere il sistema formativo. Detto delle carenze dell’apprendistato di primo livello, bisognerebbe diffondere molto di più anche quello di terzo livello sull’alta formazione. Solo in questo modo è possibile sviluppare un’economia della conoscenza. Altro fattore di criticità è che la formazione professionale è gestita da privati in accreditamento. Anche in questo caso andrebbero valutate bene i criteri di qualità che vengono garantiti ai ragazzi.  Se poi ci spostiamo verso altri istituti le cose non sono certo migliori. Abbiamo introdotto, recependo una direttiva europea, l’obbligo  di alternanza scuola-lavoro. Riscontro, anche per esperienza diretta, che non è stato previsto un disegno chiaro sull’attuazione di un principio importante che, in assenza di visione, rischia di essere solo un peso per gli attori sociali coinvolti. Come secondo aspetto il sindacato, sia quello dei lavoratori sia le rappresentanze datoriali, deve ripensare la propria struttura e il proprio modo di fare rappresentanza, per sapere affrontare le sfide di un’economia della conoscenza. 

La rappresentanza sociale è adatta ai tempi?

Se vogliamo rappresentare il lavoro e l’impresa in ambito 4.0 dobbiamo capire che il processo produttivo non è più incentrato sulla singola azienda o sul singolo settore, ma fondato sull’interconnessione costante tra aziende e lavoratori in ambito territoriale e macro-territoriale. La rilevanza del sistema industria 4.0 è la customerizzazione del prodotto o del servizio. In parole semplici il successo di una produzione o di un servizio dipende dalla soddisfazione cosante del cliente che sceglie in base alle proprie soddisfazioni attese. Per fornire risposte alle attese del cliente  le professionalità altamente qualificate sono la base del successo. Per questo motivo le aziende che investono nel lavoro sono quelle che hanno maggiori possibilità di restare sul mercato. Le parti sociali, se vogliono rappresentare questo ciclo produttivo, dovrebbero uscire dallo schema contrattuale del Novecento per coniarne uno nuovo adatto ai tempi che viviamo. Per ottenere questo risultato è necessario rappresentare le professionalità indipendentemente dal settore di appartenenza magari temporanea. In questo senso conta poco la forma contrattuale e il lavoro autonomo o subordinato. L’aspetto fondamentale è quello di riuscire a regolamentare contrattualmente il ciclo produttivo al fine di massimizzare la produttività e redistribuire a chi l’ha generata il valore aggiunto che si determinerebbe.

Qual è dunque l’insegnamento che possiamo trarre dal WorldSkills?

Come detto la formazione di base e continua sono elementi strategici per la competitività delle imprese e del lavoro. Per far questo motivo, come già detto, servirebbe la cooperazione di più attori in diversi ambiti soprattutto territoriali. Una realtà come WorldSkills ci permette di comprendere come il nostro paese sia ancora molto lontano da standard qualitativi in essere in altri paesi che solo qualche anno fa definivamo emergenti.

L’altra riflessione riguarda l’importanza che si vuole dare ai giovani. Investire nella loro formazione significa creare delle figure professionali capaci di confrontarsi con un mercato del lavoro che da sempre meno certezze in assenza di un vero sviluppo del principio del long life learning. Investire in questi ambiti significa garantire salari migliori e conseguentemente un finanziamento al welfare maggiore che, in un società che invecchia rapidamente, mi pare un dato rilevante per il benessere sociale del futuro.

Tommaso Nutarelli

Tags: FormazioneCislLavoro
Tommaso Nutarelli

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Giornalista de Il diario del lavoro.

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