La Cgil di Milano ha condotto un’indagine sulle transizioni occupazionali attraverso il Servizio di Orientamento al Lavoro (SOL) e lo sportello Politiche Attive del Lavoro, analizzando le esperienze dei disoccupati tramite laboratori collettivi e questionari somministrati in quattro ondate a distanza di tre mesi, ai percettori di Naspi che si sono rivolti al patronato Inca Cgil. Ne abbiamo parlato con la segretaria generale della Cgil del capoluogo lombardo Valentina Cappelletti.
Segretaria con quali modalità si è svolta la ricerca?
La ricerca si è svolta tra il 2022 e il 2024, somministrando poco più di 10mila questionari e ricevendone indietro 2.800. Quello che abbiamo fatto è stato accompagnare per un periodo di 12 mesi chi era in disoccupazione. Alcune persone sono riuscite a trovare un nuovo lavoro stabile, altre no, ritornando in disoccupazione. Quest percorso ci ha permesso di avere dati e riposte molto interessanti.
Quali?
Il primo dato che è emerso è come queste persone si sono attivate su molti canali per trovare un nuovo lavoro. Il digitale è stato quello più usato e ritenuto più affidabile. Inoltre la percentuale di inattivi non è molto elevata, siamo al 20%. I motivi sono da imputare all’avvicinamento alla pensione, soprattutto per gli uomini, e l’impegno in compiti di cura per le donne.
A cosa è attribuibile che il fatto che alcune persone non abbiamo trovato lavori stabili?
I profili occupazionali con i quali ci siamo confrontati non erano bassi o deboli, anzi. Dunque la nuova perdita del lavoro non è ascrivibile al curriculum della persona, ma alla natura del settore economico di appartenenza che vive molto di contratti a termine.
Quindi il terziario o l’edilizia?
Sì, ma non solo. Anche nell’industria, una volta considerata un settore capace ci generare un’occupazione stabile e forte, è in atto un processo di somministrazione molto forte. Oppure abbiamo incontrato una ragazza laureata nelle discipline STEM, molto richieste sul mercato, che però non ha mai avuto un contratto a tempo indeterminato.
Quando i lavoratori si sono relazionati con le politiche e con le strutture pubbliche per la ricerca di una nuova occupazione che cosa è emerso?
Le politiche attive pubbliche ovviamente non possono riparare tutte le storture del mercato del lavoro. Il programma Gol, finanziato dalle risorse del Pnrr, si muove più su un piano quantitativo che qualitativo, impendendo anche agli stessi operatori dei Cpi di cogliere i bisogni specifici di ogni singolo lavoratore. Ma anche sul fronte della formazione le notizie non sono delle migliori. Quella che viene erogata è molto generale e non offre un reale aggiornamento delle competenze. Dunque nei questionari non è emersa una relazione tra l’avanzamento lavorativo e la formazione fatta.
Per quanto riguarda la qualità del lavoro e della vita che cosa risulta dalla ricerca?
Prima di tutto un peggioramento sotto il profilo salariale. L’essere disoccupati crea un alone di incertezza e di angoscia quindi il meccanismo che subentra è quello di tenersi il nuovo lavoro anche se meno retribuito. Inoltre la durata media di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato è di 48 mesi. Le persone, soprattutto i più giovani, decidono di andarsene. Abbiamo anche cercato di valutare la qualità della vita lavorativa attraverso altre variabili, come l’adesione ai valori dell’azienda o la possibilità di avere una buona conciliazione con la sfera privata. Quello che emerge è un’insicurezza diffusa, l’idea che non si abbia il controllo della propria vita, che non si possa pianificare il futuro.
Guardando in generale al mercato del lavoro di Milano che dinamiche emergono dalla ricerca? E che effetti può aver avuto la pandemia?
La pandemia ha sicuramente velocizzato o incrementato determinati fenomeni che però ci sono sempre stati. La somministrazione non è un fatto nuovo per la nostra regione. Di tutti i lavoratori italiani in somministrazione la Lombardia ne ospita un terzo, metà dei quali nella sola Milano. Così come il mercato del lavoro milanese è stato sempre caratterizzato da una forte mobilità. Tra gennaio e settembre 2024 ci sono state 220mila dimissioni volontarie. Ora questo governo ostacola la mobilità volontaria con il collegato lavoro che obbliga ad avere alle spalle un periodo di almeno 13 settimane per poter accedere alla disoccupazione, come se per le persone fosse un piacere doverla richiedere. Un altro fenomeno osservato è la fuga dal pubblico. Sempre tra gennaio e settembre dello scorso anno sono state 7mila le dimissioni. I motivi sono da ricercare nel fatto che le persone si spostano in un segmento del pubblico che offre retribuzioni più alte o perché lo stipendio statale non permette di sostenere il costo della vita milanese.
Tommaso Nutarelli