L’Europa volta pagina, l’ultima domenica di questo settembre. Esce di scena Angela Merkel che, attraverso quindici anni tempestosi, con due gravissime crisi economiche e l’altrettanto grave crisi politica della Brexit, aveva finito per incarnare, nelle lodi e negli insulti, l’idea stessa d’Europa, quasi certamente al di là della sua stessa volontà. Nel vorticoso mutare degli altri leader, una figura solida e onnipresente, ormai quasi una persona di casa, che in tanti avevamo finito per chiamare semplicemente Angela, anzi Anghela. Un punto di riferimento obbligato per tutti perché rappresentava il paese più popoloso e più ricco dell’Unione. Ma anche per una sorta di carisma alla rovescia, tutto giocato su toni morbidi e concilianti, che finiva per sottolineare, anche nella personalità, la naturale propensione da leader. Non è un caso che, a caccia di personalità in grado di sostituirla al centro del progetto europeo, l’attenzione si sia concentrata sulla sicurezza e sulla competenza di Mario Draghi, a cui fa difetto solo un paese altrettanto solido alle spalle.
Che Europa sarà, allora, un’Europa senza Merkel? E’ una svolta cruciale, per tutti e, in particolare, per l’Italia. Non tanto per l’addio della cancelliera, ma per quello che può succedere dopo. Ma questo dopo – sorpresa – potrebbe anche essere ricco di buone notizie.
Il lascito della Merkel è, anzitutto, aver sempre considerato – e fatto pesare – l’Europa come un dato imprescindibile, da cui non era possibile tornare indietro. E’ questo che, nel 2012, rese possibile, nonostante le controspinte della destra tedesca, la convergenza con Mario Draghi, da poco arrivato alla testa della Bce: Draghi potè dire il famoso “l’euro, costi quel che costi”, perché prima aveva cercato e trovato il consenso di Angela. E il trauma della Brexit è stato superato senza scossoni dalla Ue, perché, anzitutto nella testa della Merkel, l’Europa non era solo, come per gli inglesi, un mercato, ma un’idea, un principio e un ideale. Su questa base la Cancelliera poteva, nel 2015, se non nei fatti, almeno nelle parole (che, per un politico sono, a volte, altrettanto importanti) ribadire che l’Europa non avrebbe chiuso le porte ai migranti che cercavano rifugio. E, cinque anni dopo, con uno scatto che pochi ritenevano possibile, ridare nuova linfa all’idea d’Europa con quella sorta di monumento alla solidarietà che sono i 750 miliardi di euro del piano di rilancio post-Covid.
Macchiavelli, probabilmente, sottolineerebbe che l’abilità politica della Merkel è nell’aver sfidato, in tutte queste occasioni, gli umori della sua opinione pubblica e, in particolare, l’animo conservatore del grosso del suo partito, riuscendo, comunque, ogni volta, a portare sia la prima che il secondo dalla sua parte. Come ci è riuscita? Il filo conduttore della politica della Merkel è stato inserire nel progetto europeo una difesa dura, irremovibile, spesso anche ottusa, degli interessi nazionali, così come la sua stampa e la sua opinione pubblica li interpretavano. L’Europa è rimasta insieme, ma a prezzo (diranno gli storici quanto inevitabile), di restare spesso ferma.
Lo si vede già nel grande gioco della geopolitica mondiale. In un momento in cui, con il neoisolazionismo americano, si ridefiniscono i rapporti fra le grandi potenze, l’Ue svolge un ruolo marginale perché gli interessi, spesso anche solo di una parte della grande industria tedesca, impediscono di assumere posizioni decise ed efficaci. Con la Russia di Putin, in primo luogo, con cui la Germania evita di tirare comunque troppo la corda, coinvolta com’è nella riaffermazione dell’egemonia russa sul gas europeo, attraverso il contestato progetto del gasdotto Nordstream 2 attraverso il Baltico. Con l’accordo già mezzo fallito con Xi per gli investimenti in Cina, soprattutto tedeschi. Con la malcelata tolleranza verso la emergente dittatura di Erdogan, che custodisce in Turchia – non gratis, peraltro – centinaia di migliaia di migranti che, altrimenti, si riverserebbero in Europa.
Ma è in economia che la rigorosa difesa degli interessi nazionali ha non solo pesato sull’Europa, ma si è anche rivelata miope dal punto di vista tedesco. Il rifiuto a oltranza a discostarsi dal pareggio di bilancio – un feticcio caro alla mitologia tedesca – in un momento in cui, con i tassi di interesse negativi, gli investimenti pubblici sono più che gratis ha significato, insieme, privare le altre economie europee del traino della locomotiva tedesca e negare alla stessa Germania le infrastrutture moderne di cui avrebbe bisogno. Il no, ribadito fin quasi all’ultimo, agli eurobond e alla creazione di titoli di debito europei, significava condannare l’euro – per la mancanza di un bacino d’investimento paragonabile a quello dei T-bond americani – al ruolo di valuta nana. Il mercantilismo ha sacrificato ad un boom perenne di esportazioni sia l’autonomia della politica estera, sia un più equilibrato sviluppo dell’economia interna.
E’ qui che si aprono le incognite e le opportunità del dopo Merkel. A stare ai sondaggi, il suo probabile successore è il socialdemocratico Olaf Scholz. Inutile aspettarsi cesure o fughe in avanti da parte di un uomo che, della Merkel, era il ministro delle Finanze e che si sta affermando grazie all’abilità di calarsi nei panni della cancelliera uscente e di conquistare il suo elettorato. Ma l’ultima Merkel, quella dei 750 miliardi di euro del NextGen, finanziati a debito, era già molto diversa dai tempi del ministro-falco Schaeuble e del “cacciamo la Grecia”. In qualche modo, è una traiettoria già tracciata e Scholz può portarla più avanti, perché comunque meno dipendente dagli umori di un elettorato conservatore, legato al Bundesbank-pensiero. Si può pensare ad una politica economica più espansiva, meno ingessata dal bilancio in pareggio, meno abbacinata dall’altro feticcio, quello mercantilista delle esportazioni, a tutto vantaggio degli altri paesi europei. Se a questa diversa sensibilità si aggiungesse la presenza nella coalizione dei Verdi, le timide aperture di Scholz su un futuro all’insegna degli eurobond e delle tasse direttamente gestite da Bruxelles potrebbero diventare anche più coraggiose. E la revisione in cantiere del Patto di stabilità potrebbe porre limiti meno soffocanti per disavanzo e debito di Stato e più margine finanziario per la spesa in investimenti.
Anche noi ci giochiamo parecchio il 26 settembre.
Maurizio Ricci