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Home - Approfondimenti - Analisi - Come affrontare la questione salariale

Come affrontare la questione salariale

9 Gennaio 2004
in Analisi

di Agostino Megale – Presidente Ires Cgil

Emerge nel 2004 una vera e propria questione salariale? La risposta a questa domanda è affermativa e perciò diventa necessaria un’azione di aggiornamento del protocollo del 23 luglio 1993 con l’obiettivo di riconquistare il ruolo insostituibile della concertazione e di consolidare i due livelli contrattuali, quello nazionale, di difesa del potere di acquisto dei salari dall’inflazione e di estendere quello aziendale e territoriale, avendo come riferimento per quest’ultimo il bacino di piccole imprese e il distretto territoriale. Per questo va pensata un’azione di aggiornamento della politica dei redditi di cui indico i caratteri necessari.

A. Rilanciare una nuova politica dei redditi che sappia aggiornare il protocollo del 23 luglio, anche alla luce dei cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro e dell’impresa, riaffermando il ruolo insostituibile della concertazione e della contrattazione. Nell’ambito di questi due obiettivi è indispensabile tenere sempre presente che l’esperienza di questo decennio sul versante della politica dei redditi e della politica contrattuale non ha ad oggi alternative serie e credibili, mentre invece, sono urgenti aggiustamenti e correzioni per le parti che hanno funzionato meno bene e per questo è utile ricordare che:


1. la politica dei redditi ha funzionato nel periodo 1996-2001 poiché vi è stato una politica di concertazione che ha consentito,  con tassi di inflazione programmati vicino alla dinamica reale, di tenere l’inflazione effettiva sotto il 2%, (nel 1995 l’inflazione era al 5,5%), di tenere sotto controllo prezzi e tariffe, di aumentare i salari sopra l’inflazione (+0,1% nel decennio) e di redistribuire un pezzetto, seppur piccolo (3-4%), degli incrementi di produttività.


2. Non ha funzionato negli ultimi 24 mesi, poiché il governo ha fatto:


§         saltare la concertazione;


§         previsto tassi di inflazione programmata pari a circa la metà delle dinamiche reali (1,4-1,5%), mentre l’inflazione effettiva si posizionava al 2,7% o al 3,2% se guardiamo ai consumi delle famiglie;


§         saltare qualsiasi politica di controllo di prezzi e tariffe, (nel protocollo del 23 luglio è previsto un apposito capitolo – il “price cap” – da aggiornare alla luce di questa esperienza);


§         ha eliminato il recupero del fiscal-drag, realizzando solo parzialmente una compensazione con il primo modulo della delega fiscale sulle aliquote più basse;


§         pur in questa situazione i contratti nazionali unitariamente realizzati hanno parzialmente funzionato realizzando una tenuta del potere di acquisto problematica. I migliori risultati sono previsti in quei contratti che hanno agito più sull’inflazione attesa che su quella programmata.


3.  In tutto il periodo preso a riferimento si può facilmente notare che il vero grande problema non risolto della politica contrattuale è la redistribuzione di una quota consistente della produttività al lavoro. Questa grande questione è la via maestra per affrontare sia il tema della crescita dei salari che della competitività del sistema produttivo italiano. Questi dati sono chiarissimi nelle tabelle relative alle dinamiche europee internazionali.


Da tutto ciò si può trarre una prima indicazione per la quale il modello dovrebbe funzionare positivamente, immaginando che bassa inflazione, controllo dei prezzi, politiche fiscali adeguate siano indispensabili nel rilanciare oggi una “nuova politica dei redditi”. Per questo i tassi di inflazione programmata vanno presi a riferimento solo se condivisi, altrimenti si dovrà puntare su inflazione attesa o concordata. I contratti nazionali non mutano dunque la loro impostazione di fondo fatto salvo un aggiustamento di tiro con le dinamiche inflattive, al fine di tenere il potere di acquisto. In questa logica può funzionare sia la dinamica biennale prevista oggi che un eventuale riunificazione della durata normativa e salariale nell’ambito di un triennio. E’ evidente che in quest’ultimo caso l’eventuale recupero delle differenze tra quanto concordato nel rinnovo e l’inflazione reale va al triennio successivo.
Dal nostro punto di vista la dinamica biennale, con gli aggiustamenti indicati, funziona anche nel raccordo con la contrattazione decentrata. Una volta chiarito che il contratto nazionale deve tutelare il potere di acquisto e la contrattazione decentrata redistribuire produttività, l’obiettivo principale della nuova fase deve essere quello di come garantire una effettiva redistribuzione della produttività, estendendo e allargando la contrattazione anche a livello territoriale nelle aree di piccola impresa e di distretto. L’estensione della contrattazione a livello territoriale di distretto si può affermare concretamente nella consapevolezza che la redistribuzione della produttività deve avvenire a livello di impresa o di territorio, salvo intese diverse che le parti nazionali raggiungono in relazione ad esigenze concordamente individuate nel settore e nella categorie.
La questione principale riguarda i bassi salari presenti nel lavoro dipendente, nel lavoro sommerso, nel lavoro in collaborazione coordinata e continuativa e, buoni ultimi,  i giovani nuovi assunti, che entrando in livelli di inquadramento più bassi, non superano gli 800-900 euro mensili netti, come ha evidenziato l’ultima vertenza del trasporto locale. Retribuzioni nette sotto i 1000 euro coinvolgono anche categorie storiche del “made in Italy”, dell’edilizia, dell’artigianato, dei servizi alla persona. Parliamo di 5/6 milioni di persone, di cui: 
circa 3 milioni stanno tra gli 800 e i 1000 euro, altri 3 milioni, di cui la parte rilevante sta nel sommerso e nella collaborazione coordinata e continuativa, tra i 600 e gli 800 euro netti.


Come ci dicono gli ultimi dati Istat, si è ridotto formalmente di un punto la fascia delle famiglie che vivono male ed in povertà, ma sostanzialmente vi è un “rischio impoverimento” molto più grande, come confermano i dati Istat. Non è un caso che in questo contesto si è ridotta la qualità dei consumi e della spesa, rendendo necessario per questa via, sul versante della spesa delle famiglie più povere, recuperare un differenziale troppo ampio con il resto d’Europa.


Dare risposta al tema dei bassi salari richiede un’azione su più fronti e comunque nell’immediato servono:


·         politiche contrattuali che rivalutino il lavoro di operai e operaie, pagando di più e meglio disagi e flessibilità, oltreché anche per i livelli professionali più bassi, prevedendo appositi circuiti formativi per far crescere salario e professionalità;


·         politiche che affermino diritti e tutele, già nei contratti e poi per via legislativa, per i soggetti meno tutelati;


·         politiche fiscali che sostengano la crescita dei redditi bassi, poiché l’operazione del governo sul piano fiscale, annullando il fiscal-drag, non ha prodotto alcun miglioramento tangibile;


·         attraverso l’inserimento “del paniere di reddito familiare”, oltreché un’azione sui prezzi, va previsto un sostegno fiscale per quelle famiglie a basso reddito in cui l’inflazione pesa di più della media.


B. I salari professionali, per i quali i contratti prevedono parametri molto bassi (100-160), vanno rinegoziati nei contratti nazionali prevedendo parametri reali molto più aderenti alla realtà dei salari professionali. Chiameremo questo ultimo punto “la grande riforma delle professionalità”, poiché si tratta non solo di pagare di più e meglio il lavoro, ma di ricondurlo ad una sua crescita ancorata alla formazione e alla certificazione della attività formativa come condizione per una crescita salariale e professionale.


C. Puntare alla crescita salariale con un obiettivo condiviso dalle parti sociali sintetizzato nello slogan “far crescere la produttività per darne di più al lavoro”. In quest’ambito è evidente che la difesa del potere di acquisto viene affidata a contratti nazionali più  capaci di regolare anche le differenze. La maggior produttività al lavoro va redistribuita in aziende nel territorio. Nel decennio 93-2003, su 21 punti di produttività, solo 4 sono andati al lavoro; se guardiamo al periodo 2003-2013 potremmo immaginare una produttività che cresce più di quanto avvenuto ieri, ipotizzando una redistribuzione al lavoro del 50% e l’altro 50% ad investimenti (nella fase precedente quasi esclusivamente a profitti e tasse). Oggi le regole del 23 luglio consentono, se utilmente applicate, di difendere il potere di acquisto dall’inflazione. Insieme a questa dinamica bisogna immaginare un impegno delle parti che a fronte di produttività non redistribuita (perché in alcune realtà aziendali o territoriali non si è svolta contrattazione) sono le parti nazionali stesse a farsi carico di una redistribuzione a posteriori. In quest’ottica tutto va ancorato a regole certe per la contrattazione tra le parti.


D. Nella riconferma del ruolo del CCNL anche in un quadro di decentramento di alcune materie e di sperimentazione della contrattazione territoriale a partire dai distretti, sarebbe una sfida non da poco produrre una soluzione che vada verso gli accorpamenti contrattuali per grandi filiere omogenee che veda il passaggio dagli oltre 360 contratti nazionali a non più di 30/50. Se questo sarà o meno il passaggio per arrivare all’eventuale “contratto quadro dell’industria”, che sposta poteri da un lato a livello europeo e dall’altro a livello aziendale locale, è una riflessione tutta ancora da fare.


 


 


 


 

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