(Dal Resoconto Sommario)
SEDE CONSULTIVA
Martedì 22 luglio 2003. – Presidenza del presidente Domenico BENEDETTI VALENTINI. – Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Pasquale Viespoli.
Documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2004-2007.
Doc. LVII, n. 3.
(Parere alla V Commissione).
(Esame e rinvio).
La Commissione inizia l’esame.
Emerenzio BARBIERI (UDC), relatore, illustra il Documento di programmazione economico-finanziaria che contiene le grandi linee della politica economica e finanziaria per gli anni 2004-07. Come affermato nella parte introduttiva, Il DPEF rappresenta la premessa per aprire una stagione di dialogo sociale e istituzionale mirata a realizzare riforme strutturali finalizzate a rilanciare uno sviluppo sostenuto e duraturo. L’obiettivo è giungere ad un «Accordo per Riforme, Competitività, Sviluppo ed Equilibrio finanziario « da tradurre in termini normativi nella prossima legge finanziaria, verificando gli indirizzi politici elaborati dalle singole amministrazioni, che verranno posti a base del dialogo con tutte le parti sociali e i rappresentanti delle autonomie locali. Questo «Accordo» deve partire dalla conferma degli impegni sottoscritti con il Patto per l’Italia e deve raccogliere il contributo del più recente «Patto per la competitività « siglato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria. Ricorda, in proposito, che, per quanto riguarda i problemi connessi ai rinnovi contrattuali, il Governo ha dato mandato al ministro per la funzione pubblica di riavviare, d’intesa con tutte le parti interessate, le trattative per il rinnovo dei contratti del personale del comparto degli enti locali e della sanità, confermando i contenuti dell’accordo del febbraio 2002 e pertanto riconoscendo un incremento retributivo pari all’1 per cento previsto per tutto il pubblico impiego e legato alla produttività.
Gli interventi proposti nel DPEF mantengono la continuità con gli indirizzi programmatici del Governo, pur tenendo conto di un quadro economico internazionale meno favorevole rispetto alle attese. L’obiettivo è di rafforzare lo sviluppo economico e sociale del paese, fondato su alcuni pilastri fondamentali, comuni ai grandi paesi europei: una politica di riforme strutturali socialmente compatibili; una politica di investimenti in capitale fisico e umano e in tecnologia, finalizzata ad innalzare la produttività e la competitività e, quindi, la crescita del paese; una politica macroeconomica e finanziaria atta a coniugare rigore e sviluppo, in linea con gli impegni europei.
Per quanto attiene alle politiche per il lavoro e per la previdenza, il Documento di programmazione economico-finanziaria per il quadriennio 2004-2007 tende a confermare le linee guida espresse nel precedente DPEF 2003-2006, concernenti la riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale.
Sottolinea quindi, al capitolo III, paragrafo 1, che i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni relativamente al trend demografico (con un notevole aumento delle aspettative di vita degli individui) e alla domanda di servizi assistenziali non hanno ancora trovato piena risposta sul piano di alcuni fondamentali istituti, quali il sistema pensionistico e assistenziale e il mercato del lavoro, creando crescenti squilibri nei conti pubblici e frenando la crescita economica. Per evitare l’aggravarsi di tali problemi nei prossimi anni, il Documento evidenzia la necessità di interventi strutturali che assicurino un migliore equilibrio tra risorse disponibili e quelle necessarie per il soddisfacimento di adeguati servizi sociali.
Lo stesso Documento, inoltre, evidenzia come l’attuazione ancora parziale delle politiche di riforma dei mercati dei beni e del lavoro, aventi lo scopo di favorire la flessibilità, limiti «la crescita della produttività totale dei fattori, con conseguenze negative sulla competitività italiana e sulle potenzialità di crescita endogena».
Ricorda, in proposito, che il perseguimento delle politiche attinenti al mercato del lavoro e al sistema previdenziale si inserisce nella cornice delineata a livello comunitario, in particolare, nei due Consigli europei di Lisbona e di Stoccolma, nei quali l’Unione europea si è posta l’obiettivo di conseguire nel decennio in corso una crescita economica sostenibile capace di garantire un aumento sostanziale del tasso di occupazione (70 per cento per gli uomini e 60 per cento per le donne nel 2010 nelle classi di età tra 15 e 64 anni), di migliorare la qualità del lavoro e di ottenere una più solida coesione sociale.
Al riguardo evidenzia come siano stati compiuti notevoli progressi in materia di occupazione; tuttavia il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Consiglio di Lisbona richiede profonde riforme strutturali «volte alla piena occupazione e ad una maggiore produttività e qualità del lavoro».
In Italia, l’anno appena trascorso è stato caratterizzato da un particolare dinamismo occupazionale, particolarmente significativo, sia in considerazione della situazione economica congiunturale degli ultimi 18 mesi, sia perché, per la prima volta da circa un decennio, l’andamento occupazionale risulta in controtendenza rispetto all’andamento nei principali paesi dell’area euro.
Tale progresso è in larga parte riconducibile agli effetti di tre principali linee di intervento: innanzi tutto, le riforme strutturali effettuate con l’obiettivo di migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, eliminando varie forme di rigidità. Il Documento ricorda che tali riforme, negli ultimi cinque anni, hanno già permesso una diminuzione, in media, del tasso di disoccupazione di oltre mezzo punto percentuale l’anno. Alla stessa finalità è indirizzata la legge n. 30 del 2003, recante delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, che prevede misure e strumenti che contribuiranno a migliorare la situazione del mercato del lavoro in termini di flessibilità e di efficienza. Una seconda linea riguarda specifici interventi di politica fiscale, realizzatisi soprattutto nell’ultimo biennio, finalizzati al sostegno dell’occupazione, quali il credito di imposta a beneficio delle assunzioni a tempo indeterminato, introdotti con la legge n. 388 del 2000 (finanziaria 2001) e riconfermati, anche se non nella stessa entità, con la legge n. 488 del 2001 (finanziaria 2002) e con la legge n. 289 del 2002 (finanziaria 2003). L’ultima linea di intervento attiene alla moderazione salariale degli ultimi anni, indotta dall’applicazione del modello di contrattazione formalizzato nel Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione del 23 luglio 2003, che ha contribuito, in misura anche sostanziale, alle recenti buone prestazioni del mercato del lavoro.
Ricorda poi che la legge n. 30 del 2003, recante delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, rappresenta una prima trasposizione sul piano normativo degli obiettivi e delle misure indicati nel «Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità», elaborato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nell’ottobre del 2001. In attuazione alle deleghe contenute nella citata legge, è stato predisposto un unico decreto legislativo comprensivo di tutte le deleghe (attualmente all’esame delle competenti Commissioni parlamentari), ad eccezione della delega relativa alla razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro che sarà esercitata successivamente.
Il decreto delinea la nuova organizzazione del mercato del lavoro e della relativa disciplina legale, con lo scopo di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti volti a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro ed a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di prima occupazione, con particolare riguardo alle fasce più deboli. Tali obiettivi saranno raggiunti sia mediante il nuovo regime autorizzatorio e di accreditamento regionale, sia attraverso la «borsa continua del lavoro», che riformeranno l’attuale sistema del collocamento, pur mantenendo salve le funzioni amministrative delle province previste dal decreto legislativo n. 469 del 1997 e confermate dall’articolo 1, comma 1, lettera e) della legge delega.
Inoltre, vengono introdotte nuove figure contrattuali, quali: il contratto di somministrazione di lavoro, uno strumento contrattuale inedito per l’Italia ma molto diffuso negli Stati Uniti fin dai primi anni ’80, che introduce il cosiddetto leasing di manodopera (staff leasing), grazie al quale le aziende potranno «affittare» la forza-lavoro anche a tempo indeterminato e non solo a termine; il lavoro intermittente e il lavoro ripartito; il lavoro occasionale di tipo accessorio, in relazione ad attività lavorative di natura meramente occasionale rese, attraverso il meccanismo dei buoni lavoro, da soggetti a rischio di esclusione sociale.
Ulteriore intervento del decreto legislativo interessa le collaborazioni coordinate e continuative, finalizzato a superare gli abusi che hanno condotto all’uso talvolta improprio di tale strumento contrattuale. Con la nuova figura del lavoratore a progetto, si prevede l’obbligo di ricondurre i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il DPEF evidenzia che, esaminando l’evoluzione dell’occupazione e dei redditi da lavoro negli ultimi quattro anni, e confrontandoli con le tendenze nei principali paesi dell’area euro, emerge che l’Italia, a fronte di incrementi fra i più contenuti – sia in termini assoluti sia in termini relativi – per quanto riguarda i redditi di lavoro dipendente, ha invertito il differenziale di crescita occupazionale che la separava dalla media europea, passando da uno scostamento medio sfavorevole pari a mezzo punto percentuale nel periodo 1995-98, ad un vantaggio di circa tre decimi di punto nel periodo 1999-2002. Tale risultato sarebbe in larga parte da imputare alla forte crescita di servizi privati, in particolare il settore dell’intermediazione finanziaria, le attività immobiliari e i servizi alle imprese.
Anche per il 2003 si prevede una crescita generale dell’occupazione in Italia, pari allo 0,6 per cento, anche se in rallentamento rispetto al 2002 (anno nel quale la crescita è stata pari all’1,1 per cento). Più specificamente, mentre in alcuni settori si assisterebbe ad un decremento del livello di occupazione, come nel settore dell’industria in senso stretto (-0,1 per cento nel 2003 contro lo 0,4 per cento nel 2002), in altri settori, come ad esempio nei servizi, la domanda di lavoro aumenterebbe dello 0,9 per cento (contro l’1,5 per cento nel 2002).
Il quadro macroeconomico programmatico per il quadriennio 2004-2007, al riguardo, stima che l’occupazione dovrebbe aumentare dello 0,8 per cento nel 2004, riflettendo da un lato gli effetti della riforma del mercato del lavoro, dall’altro gli effetti delle politiche di contenimento dell’occupazione nel pubblico impiego. Nel periodo 2005-2007, inoltre, la crescita media si dovrebbe attestare al di sopra dell’1 per cento. Il tasso di disoccupazione, infine, previsto pari all’8,8 per cento nel 2003, dovrebbe ridursi progressivamente attestandosi, nel 2007, al 7,5 per cento; nello stesso anno il tasso di occupazione dovrebbe collocarsi al 60 per cento, prossimo a quello fissato per l’Italia dai Consigli europei di Lisbona a Stoccolma (61,3 per cento entro il 2010).
Inoltre l’elasticità tra occupazione e PIL, dopo i valori elevati toccati nel biennio 2001-2002 (di poco inferiori a 2) si assesterebbe intorno allo 0,5 per cento, in linea con il dato medio della seconda metà degli anni ’90.
In questo contesto, il DPEF pone particolare rilevanza alla crescita occupazionale della componente femminile, in considerazione anche del fatto che il tasso di partecipazione femminile italiano al mercato del lavoro è uno dei più bassi in Europa. Per facilitare l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, il Documento (capitolo III, paragrafo 1) evidenzia la necessità di soddisfare la maggiore richiesta di servizi educativi per l’infanzia, con particolare riferimento alla fase della prima infanzia, dove si riscontrano le carenze maggiori.
Il Documento, inoltre, sottolinea (capitolo II, paragrafo 1) che uno dei contributi principali alla crescita occupazionale che caratterizza l’economia italiana dalla seconda metà degli anni ’90, nonostante il rallentamento dovuto dalle sfavorevoli condizioni congiunturali, risiede nell’introduzione di misure volte a favorire la flessibilità del mercato del lavoro, soprattutto attraverso un processo che ha favorito l’entrata nel mercato del lavoro di soggetti in precedenza esclusi. Tra questi soggetti ha assunto notevole rilevanza la componente femminile: per le donne, infatti, nel quinquennio 1998-2002 il tasso d’occupazione è salito di 5 punti percentuali, e l’occupazione femminile è cresciuta ad un ritmo 5 volte superiore a quello degli uomini.
A conferma di tale situazione, l’ultima rivelazione dell’ISTAT sulle forze lavoro di aprile ha evidenziato che il ritmo di crescita dell’occupazione femminile, pari al 2,3 per cento, è tornato ad attestarsi sui livelli registrati nel corso del primo semestre del 2002.
Fra le cause che hanno portato alla crescita dell’occupazione femminile particolarmente importante è il lavoro a tempo parziale. Tale tipologia di lavoro atipico, infatti, trova ampia rispondenza nell’occupazione femminile: in Italia le donne che lavorano part-time sono 1 milione e 300 mila, rispetto agli 811 mila del 1998, con un’evidente crescita, anche se la percentuale di tale tipologia contrattuale è significativamente più elevata in Europa (33,8 per cento di media UE contro il 17,8 per cento in Italia nel 2001).
Al riguardo, ricorda che la richiamata legge n. 30 del 2003 ha introdotto nuove figure contrattuali che potrebbero ulteriormente stimolare la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Infine, il DPEF evidenzia che ulteriori effetti positivi sulla crescita dell’occupazione femminile nel medio periodo dovrebbero arrivare dalla riforma fiscale avviata con la legge n. 80 del 2003 (delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale). Infatti, si constata che l’obiettivo di accrescimento dell’offerta di lavoro si concentra su tre principali aspetti, e cioè innanzi tutto sul Mezzogiorno, ove l’occupazione regolare è su livelli endemicamente bassi. Peraltro, è necessario sottolineare come nell’attuale fase congiunturale il Mezzogiorno continui a crescere più rapidamente del resto dell’Italia. Nel biennio 2001-2002, infatti, la crescita del Mezzogiorno è stata dell’1,4 per cento contro l’1 per cento del centro-nord; analogo divario è previsto per l’anno in corso. Il Mezzogiorno, quindi, mostra maggior dinamismo, sia con riguardo alla creazione di nuove imprese, sia in termini di occupazione, specialmente industriale. L’occupazione totale nel Mezzogiorno, infatti, è tornata a crescere lievemente in aprile (0,3 per cento in termini destagionalizzati rispetto a gennaio, in linea con il centro-nord), con ciò recuperando la flessione che si era prodotta nel 2002. Un altro aspetto riguarda i gruppi socio-demografici caratterizzati da bassa partecipazione strutturale, nonché le fasce di età vicine alla pensione, che sono ancora caratterizzate da una fuoriuscita precoce dal mercato del lavoro.
Alla luce dei dati riportati, il DPEF evidenzia come un importante stimolo all’offerta di lavoro possa derivare dalla riduzione delle imposte sul reddito, previsto dalla citata legge n. 80 del 2003, dal momento che i benefici fiscali sono concentrati sui redditi individuali più bassi.
Complementare alle riforme strutturali del mercato del lavoro è la predisposizione di un sistema di ammortizzatori sociali più adeguato all’attuale situazione economico-sociale. Il Documento fa solo un accenno a tale necessità, «al fine di cogliere al massimo gli impulsi derivanti dalla congiuntura più favorevole». In tal modo si intende confermare quanto prevedeva il precedente DPEF a riguardo della riforma degli ammortizzatori sociali, cioè un innalzamento della misura dell’indennità ordinaria di disoccupazione – ora notevolmente inferiore a quella dei trattamenti ordinari e straordinari di integrazione salariale e dell’indennità di mobilità – e un allungamento della sua durata; un secondo livello di tutela, avente natura facoltativa e volontaria e a carico delle parti; l’obbligo, al fine del godimento delle tutele, della ricerca attiva di occupazione da parte del soggetto interessato e della partecipazione a progetti formativi, eventualmente gestiti anche dalle parti sociali. Ricorda al riguardo, che il disegno di legge A.S. 848-bis, attualmente all’esame della Commissione lavoro del Senato, derivante dallo stralcio dal disegno di legge n. 848 (collegato in materia di occupazione e mercato del lavoro), prevede tra l’altro, all’articolo 2, una delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali.
Passando a considerare la materia previdenziale, il DPEF (capitolo III, paragrafo 1) afferma che, in considerazione dell’allungamento delle aspettative di vita e delle conseguenti maggiori erogazioni per pensioni, servizi sanitari e assistenziali, al fine di mantenere in ordine i conti pubblici ed evitare un eccessivo inasprimento della pressione fiscale per finanziare tali servizi o un onere a carico delle generazioni future, si rende necessario perseguire con determinazione le riforme anche nel settore della previdenza. Tuttavia precisa che le misure già adottate negli ultimi anni (legge n. 335 del 1995 e legge n. 449 del 1997) e quelle in via di approvazione (delega in materia previdenziale A.S.2058) già offrono un contributo allo scopo di assicurare la sostenibilità finanziaria nel lungo periodo, adeguando le prestazioni ai contributi effettivamente versati tramite il sistema contributivo, integrando la previdenza obbligatoria pubblica con altre forme complementari e allungando, su base volontaria, la permanenza al lavoro.
Osserva poi che il sistema contributivo, introdotto dalla «riforma Dini» del 1995, si applica esclusivamente ai nuovi assunti dal 1996; solo per le annualità successive al 1995 per chi ha meno di 18 anni di versamenti contributivi a quella data; infine non si applica affatto per i lavoratori più anziani, quelli cioè con più di 18 anni di lavoro alla data del 31 dicembre 1995. La previdenza complementare ed integrativa, con riferimento ai fondi pensione, è invece stata introdotta in Italia con il decreto legislativo n. 124 del 1993, successivamente più volte modificato ed integrato. Ulteriori modifiche alla normativa sulla previdenza complementare sono contenute nel disegno di legge delega A.S. 2058, già approvato dalla Camera e attualmente all’esame della Commissione lavoro del Senato. Tale provvedimento dispone anche in merito ad incentivi per ritardare l’età del pensionamento e tende a liberalizzare l’età pensionabile.
Il DPEF, inoltre, sottolinea la necessità di «rispondere alla sfida posta dall’invecchiamento della popolazione» e, nell’ambito del capitolo III, paragrafo 4 (recante Misure programmatiche di finanza pubblica) prevede che le riforme strutturali si concentreranno, tra l’altro, sul versante delle spese, «su interventi di riduzione di regimi speciali di favore», prefigurando interventi di armonizzazione volti ad eliminare sperequazioni tra i vari regimi pensionistici.
Secondo la relazione congiunta della Commissione e del Consiglio UE in materia di pensioni adeguate e sostenibili del 3 marzo 2003, la sostenibilità finanziaria nel lungo periodo costituisce un problema rilevante in molti Stati membri dell’UE. Sulla base delle politiche in vigore o convertite in legge alla fine del 2000, la spesa pubblica per le pensioni dovrebbe aumentare di 3-5 punti percentuali sul PIL nella maggior parte degli Stati membri dell’UE tra il 2000 e il 2050. Di conseguenza, la media UE aumenterebbe dal 10,4 per cento nel 2000 al 13,3 per cento nel 2050. Con particolare riferimento all’Italia, si afferma che l’Italia avrà il più alto indice di dipendenza degli anziani dei 15 Stati attualmente membri dell’UE: più del 60 per cento nel 2050, con un aumento del 26 per cento rispetto al 2000. Secondo previsioni del Comitato di politica economica del Consiglio, effettuate tenendo conto delle misure di riforma presentate nel rapporto sulle strategie dei singoli paesi in materia di pensioni per il 2002, la spesa per le pensioni aumenterà dal 13,8 per cento del PIL registrato nel 2000 al 16 per cento del PIL del 2033, anno di raggiungimento del picco, dopodiché comincerà gradualmente a diminuire, fino al 14,1 per cento del 2050.
Le necessità evidenziate nel precedente DPEF per una riforma del sistema previdenziale si sono concretizzate nella predisposizione del già citato disegno di legge di delega in materia previdenziale A.S. 2058, i cui effetti sul piano dell’equilibrio a medio-lungo termine dei conti pubblici non sono facilmente quantificabili. Esso presenta misure di incentivazione al rinvio del pensionamento (si pensi alla certificazione dei diritti pensionistici acquisiti o alle agevolazioni contributive per chi decide di proseguire l’attività lavorativa nonostante la maturazione del diritto alla pensione). Inoltre la delega previdenziale approvata dalla Camera prevede una decontribuzione fino al 5 per cento per i neoassunti, a parità di trattamento pensionistico maturato. Infine, per sostenere la previdenza complementare, viene previsto l’obbligo di destinare il TFR maturando ai fondi pensione, l’ampliamento della deducibilità della contribuzione ai medesimi fondi e la revisione, in senso favorevole, della tassazione dei rendimenti delle forme pensionistiche integrative, anche nell’ottica di una maggiore armonizzazione con la disciplina degli altri paesi UE.
Domenico BENEDETTI VALENTINI, presidente, nessuno chiedendo di intervenire, rinvia il seguito dell’esame ad altra seduta.
Promozione onorifica di ufficiali e sottufficiali di Forze armate, Guardia di finanza e Guardia costiera in congedo assoluto.
Testo Unificato C. 2011 Ascierto e abb.
(Parere alla IV Commissione).
(Esame e conclusione – Parere favorevole con osservazione).
La Commissione inizia l’esame.
Roberto ALBONI (AN), relatore, osserva che il testo unificato trasmesso dalla Commissione difesa intende offrire un riconoscimento onorifico agli ufficiali e sottufficiali delle Forze armate collocati nella riserva o in congedo assoluto. La promozione onorifica è concessa a tutti gli ufficiali e i sottufficiali di tutti i ruoli e corpi dell’Esercito, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, con l’esclusione dei generali di corpo d’armata e gradi equiparati, a condizione che abbiano lasciato il servizio per raggiunti limiti di età. Ulteriori requisiti sono previsti dall’articolo 2.
L’articolo 4, comma 1, precisa che la promozione «non produce effetti ai fini del trattamento di quiescenza».
Fa presente che in Commissione difesa il Governo ha manifestato perplessità sul contenuto del provvedimento, in quanto la possibilità di concedere la promozione a titolo onorifico perderebbe il suo carattere eccezionale, venendo praticamente generalizzata.
Osserva infine che la proposta non comporta oneri finanziari, prevedendo solo un impatto di tipo amministrativo, per l’espletamento degli adempimenti derivanti dal testo.
In conclusione, formula una proposta di parere favorevole con un’osservazione relativa all’articolo 4, comma 1, posto che potrebbe rivelarsi opportuno, per ragioni di chiarezza, precisare ulteriormente che la promozione, di cui all’articolo 1, non produce effetti neanche a qualsiasi altro fine economico-retributivo (vedi allegato).
Nessuno chiedendo di intervenire, la Commissione approva la proposta di parere del relatore.
ATTI DEL GOVERNO
Martedì 22 luglio 2003. – Presidenza del presidente Domenico BENEDETTI VALENTINI. – Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Maurizio Sacconi.
Schema di decreto legislativo recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30.
Atto n. 250.
(Seguito dell’esame e rinvio).
La Commissione prosegue l’esame, rinviato nella seduta del 17 luglio 2003.
Carmen MOTTA (DS-U), nell’affrontare il provvedimento in esame osserva che il primo dato evidente è che il decreto legislativo attuativo della legge n. 30 del 2003 si discosta sensibilmente dalla delega incorrendo nell’eccesso di delega. Ciò è riscontrabile agli articoli 13 e 14, inerenti a materie non prefigurate trai i criteri direttivi delle legge n. 30; agli articoli 45 e 73, che introducono ex novo materie inerenti a profili previdenziali; all’articolo 86, attinente a materie delle amministrazioni pubbliche.
Sono riscontrabili poi profili di incostituzionalità nella parte del decreto che disciplina la materia del part-time con norme che inficiano lo spirito stesso di questo istituto, così come all’articolo 10 e all’articolo 58 si ledono rispettivamente principi antidiscriminatori e di parità di trattamento fra uomini e donne. Si è inteso riscrivere, da parte del Governo, gran parte del diritto del lavoro con una sostanziale emarginazione del ruolo del Parlamento; il pendente ricorso alla Corte costituzionale, da parte di alcune regioni, sulla legge n. 30 del 2003 per il non rispetto delle prerogative regionali sulle materie concorrenti avrebbe dovuto consigliare un confronto di merito molto più attento.
Si prefigura un rischio elevato di stravolgere l’intero assetto delle relazioni industriali prevedendo una contrattazione collettiva ridimensionata in termini qualitativi e quantitativi e si introduce una sorta di «deregulation» all’italiana del diritto del lavoro dove, da un lato si ritiene fondamentale nonché qualificante un intervento ampio dei privati al fine di rendere più trasparente ed efficiente il mercato del lavoro e, dall’altro, si prevede un intervento statale per porre un termine alla contrattazione, una vera e propria limitazione temporale, che poco ha a che fare con i modelli anglosassoni a cui si intende fare riferimento; in USA soprattutto, interventi statali e federali sono esclusi da tutte le materie inerenti la contrattazione fra le parti.
Da un lato, ove rimane importante e opportuna una regolamentazione del sistema da parte dello Stato e del pubblico in genere per offrire parità e uniformità di condizioni d’accesso come nel mercato del lavoro, si prevede di limitare di fatto l’intervento pubblico aprendo a una moltitudine di soggetti con la più ampia discrezionalità di intervento, dall’altro, nell’ambito della contrattazione, riservata per sua natura alle parti sociali, si prevede un intervento determinante e limitante dello Stato. Una contraddizione non da poco.
Allo stesso modo, mentre nella relazione introduttiva al provvedimento si cita la formazione quale unità di sapere e saper fare indispensabile in una società della conoscenza, punto centrale delle linee di fondo sottese alla strategia europea per l’occupazione delineata nel Consiglio europeo di Lisbona, nell’articolato si comprimono gli aspetti attinenti alla formazione dei giovani lavoratori con contratto di apprendistato.
Così come ancora se si tende a incrementare la flessibilità per incrementare l’occupabilità, è necessario ricordare che la buona occupazione si identifica essenzialmente con occupazione a tempo indeterminato come previsto dall’articolo 125 del Trattato istitutivo dell’UE a cui però nel testo delprovvedimento non si fa mai alcun esplicito richiamo: una dimenticanza?
Questo richiamo è invece essenziale perché flessibilizzare il mercato del lavoro è una cosa, frammentarlo un’altra, segmentarlo un’altra ancora. In questo decreto vi sono passaggi che vanno in questo senso, cito per tutti gli articoli relativi alle fasce deboli (13, 14, 15). Segmentare significa ghettizzare forme di lavoro e fasce sociali ed è la forma più grave e dannosa di intervento sulle politiche del lavoro che tutte le misure della UE e le ingenti risorse messe a disposizione degli Stati intendono contrastare.
Relativamente alla disciplina contenuta nel titolo VI del decreto legislativo attuativo della legge n. 30 del 2003 attinente alle fattispecie dell’apprendistato e del contratto di inserimento (articoli da 47 a 60) si pongono alcune considerazioni preliminari a seconda che si valutino i contenuti dell’articolato dal punto di vista delle «politiche del lavoro» o in un’ottica «sindacale»: infatti quest’ultima suggerisce chiavi di lettura non trascurabili rispetto al tema del livello di inquadramento iniziale dell’apprendista e agli incentivi complessivi che percepisce l’impresa; questa ottica consente, infatti, un confronto tra i benefici per la persona e i benefici per l’impresa da cui emerge un equilibrio discutibile fra i due aspetti; inoltre la proposta di apprendistato in esame, che tenderebbe ad enfatizzare la valenza del contenuto formativo nel rapporto di lavoro, ha proprio su questo punto specifico la sua debolezza. Infatti, l’apprendistato ha l’ambizione di raccordare il mondo dell’istruzione e della formazione per i ragazzi dai 15 anni in su, avendo la legge n. 53 del 2003 – riforma Moratti – abbassato di un anno l’obbligo scolastico e dunque di conseguenza abbassato di un anno l’età minima rispetto alla precedente normativa di cui alla legge Treu (articolo 16 della legge n. 196 del 1997).
Tenuto conto della modifica apportata al testo dell’articolo 48, comma 3 e dell’articolo 49, comma 4, su richiesta delle regioni in sede di Conferenza unificata (modifica che circoscrive 1’intesa Stato-regioni ai soli elementi relativi alla regolamentazione degli aspetti formativi del contratto di apprendistato), permangono nel testo disposizioni che travalicano ampiamente l’ambito della delega al Governo che puntava, cito testualmente, alla «ricomposizione dei contratti a contenuto formativo», intaccando così la competenza esclusiva delle regioni in materia di formazione professionale. Ed è proprio a partire da questo primo vulnus che ne discende il secondo relativo alla significativa compressione del contenuto formativo delle diverse tipologie di apprendistato.
Infatti, nel caso dell’apprendistato per l’espletamento del diritto di istruzione e formazione (articolo 47) oltre al danno, per un adolescente, di vedersi togliere un anno di scuola nella nostra società ove l’istruzione va di pari passo con il successo professionale e quindi sociale, non viene definito il monte ore di formazione che precedentemente nel NOF (nuovo obbligo formativo) era di 240 ore, di cui 120 in formazione extra aziendale; questa è la vera innovazione apportata dalla legge n. 196 del 1997.
L’attuale scelta di una forte riduzione formativa, posto che si parla solo di un «monte ore congruo» a conseguire la qualifica professionale, rimandando ai contratti collettivi le definizione delle modalità di erogazione della formazione, ha come unico riferimento certo gli standard generali fissati dalle regioni competenti (lettere f) e g) dell’articolo 48); questo riferimento riconosce in parte la competenza regionale, ma introduce problemi in rapporto ai principi comunitari in materia di aiuti di Stato alle imprese, verificandosi la presenza di regimi potenzialmente differenziati in termini di monte ore di formazione sia nel contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione sia per l’apprendistato professionalizzante; entrambi flessibili per durata, sede (esterna, interna, «anche in azienda») e modalità della formazione, mentre i relativi e connessi benefici e sgravi di carattere contributivo spettanti all’impresa restano sostanzialmente identici, in attesa della riforma del sistema degli incentivi all’occupazione. L’erogazione dei suddetti incentivi sarà soggetta alla effettiva verifica della formazione svolta, ma secondo modalità da definirsi con un ulteriore decreto ministeriale.
Per questo motivo, le lettere da a) a j) del comma 3 dell’articolo 48 e le lettere da a) a j) del comma 4 dell’articolo 49 andrebbero rimodulate al fine di prevedere un meccanismo d’intesa Stato-regioni per la definizione condivisa di monte ore e standard entro un rango definito minimo di 240 ore, come attualmente in essere.
Proprio su questo punto – durata dei corsi di formazione e formazione esterna – è noto che sono stati sollevati problemi in particolare dalle piccole imprese. Interessante a questo riguardo è quanto pubblicato nel numero di marzo 2003 dalla rivista «Impresa e lavoro» in riferimento ai risultati di una indagine condotta dall’ISFOL sulla formazione esterna per apprendisti all’interno di un convegno sull’apprendistato e i tutors aziendali, a cui ha partecipato il sottosegretario Viespoli. Cita testualmente: «L’indagine empirica è stata condotta presso un campione nazionale di 1500 aziende, in cui gli apprendisti erano stati coinvolti in precedenza (o lo erano al momento dell’indagine) in attività formative esterne».
Lo studio è stato realizzato attraverso interviste, realizzate fra il mese di ottobre e quello di novembre 2002, e ha coinvolto imprenditori, responsabili del personale e altre figure dirigenziali responsabili dell’apprendistato.
I risultati dell’indagine mostrano un panorama dell’atteggiamento imprenditoriale alquanto diviso: il 49 per cento del totale degli intervistati si mostra soddisfatto, il 50,2 insoddisfatto. Questi valori si modificano notevolmente in relazione alle dimensioni aziendali degli indagati: i «soddisfatti» crescono in progressione ordinata fino a raggiungere il 63 per cento circa; gli «insoddisfatti» si riducono fino al 37 per cento circa.
Ben sei aziende su dieci giudicano la formazione esterna «molto» o «abbastanza utile»; il 66 per cento la considera un investimento per il futuro dell’impresa stessa e il 79 per cento la considera un’opportunità di crescita per la vita lavorativa degli apprendisti.
Le piccole imprese, le più guardinghe nei confronti dei corsi di formazione realizzati da centri esterni, motivano la propria insoddisfazione attribuendola al tempo perduto dal lavoro in azienda; le strutture produttive di maggiori dimensioni ritengono invece che le ricadute sull’attività aziendale possano ampiamente compensare le ore sottratte.
Le imprese maggiori evidenziano inoltre i vantaggi derivanti dagli sgravi contributivi, laddove le minori sottolineano gli aspetti formativi dei contratti, che consentono una preparazione dei giovani adeguata ai fabbisogni espressi dalle imprese.
Anche sulle ricadute dell’investimento formativo realizzato le opinioni non sono concordi: se otto aziende su dieci ritengono che l’apprendistato presenti, in generale, più vantaggi che svantaggi, e se tutte le aziende hanno percepito la presenza di miglioramenti di competenze giudicate irrinunciabili per l’azienda, tuttavia ben il 43 per cento definisce i corsi di formazione esterna «troppo lunghi».
Il ministero ha sottolineato opportunamente che, se è cresciuta l’attenzione delle imprese verso l’apprendistato, è ancora necessario incrementare la qualità dell’offerta formativa, per far sì che cresca la convenienza dell’utilizzo dello strumento, in particolare da parte delle piccole imprese.
È condivisibile quanto sostenuto dal ministero e dunque, coerentemente, a fronte di valutazioni differenziate da parte delle imprese, non si può ritenere seriamente che un’offerta formativa di qualità possa essere raggiunta facendo leva, in particolare, sulla riduzione oraria di formazione, indebolendo la formazione esterna, che invece risulta essere un passaggio ineludibile nel caso le imprese, che assumono apprendisti, non siano in grado di fornire la necessaria formazione. La formazione non va confusa e nemmeno può esaurirsi nell’addestramento professionale.
Circa l’apprendistato professionalizzante (articolo 49) e l’apprendistato per l’acquisizione di un diploma per percorsi ad alta specializzazione (articolo 50) (dai 17-18 anni ai 29) si può affermare che risentono dello stesso problema: scarsa professionalizzazione (aspetto mitigato, per l’apprendistato professionalizzante, dall’emendamento delle regioni proposto in sede di Conferenza Unificata) che inserisce un monte ore di formazione formale (questo termine va inteso esattamente come processo formativo formalizzato) di almeno 120 ore per competenze di base e tecnico-professionali (lettera e) articolo 49); per l’apprendistato di alta formazione tutto di fatto è rimesso alle regioni. Inoltre per l’apprendistato professionalizzante vi è una palese interferenza con la fattispecie del contratto di inserimento, dal momento che entrambe le figure si applicano a fasce di lavoratori potenzialmente coincidenti, con l’evidente rischio di una distorta competizione tra le due tipologie contrattuali che, alla fine, comporterà una compressione dell’utilizzo del contratto di apprendistato più oneroso ma assolutamente indispensabile per molti settori produttivi. Pertanto all’articolo 55 va ristretto l’elenco dei soggetti impiegabili (18-29 anni), onde evitare una sovrapposizione dannosa con il contratto di apprendistato.
A monte dei temi fin qui indicati vi sono due problematiche importanti, non ancora risolte né ben definite o precisate, che hanno grande importanza all’interno di questo decreto, ma che il testo in esame rinvia ad ulteriori provvedimenti (vedi articolo 51 per il sistema del riconoscimento dei crediti, da definirsi entro un anno) o a nuovi organismi (vedi organismo tecnico per definire il repertorio delle professioni di cui all’articolo 53: organismo di cui nulla si enuncia relativamente al funzionamento e agli obiettivi). Le problematiche riguardano appunto: il sistema nazionale delle qualifiche; la certificazione delle competenze e quindi dei crediti formativi.
Il problema relativo al tema delle qualifiche consiste nel fatto che attualmente in Italia esiste una molteplicità di qualifiche che fanno riferimento a mondi diversi spesso non comunicanti tra loro (il mondo della formazione, il mondo del lavoro e della contrattualistica del lavoro ). È un tema in cui vi è un grande spazio per interpretazioni locali, per cui una stessa qualifica può essere definita in modo molto diverso non solo da regione a regione ma anche da azienda ad azienda: basti pensare a tutte le descrizioni di qualifiche e professionalità esistenti: quelle dell’ISTAT, quelle della formazione, quelle degli enti bilaterali nelle varie analisi dei fabbisogni professionali, quelle che talvolta con un po’ di fantasia propongono le imprese stesse!
Per dare un pieno valore ad un sistema di apprendimento «on the job», come quello suggerito dall’apprendistato, teso al perseguimento di qualifiche, bisognerebbe prima aver messo a punto «l’alfabeto di base», dando un contenuto unico e preciso a quella determinata qualifica su scala nazionale anche per favorire la eventuale trasferibilità di quella qualifica fuori di quella specifica azienda (il contratto di apprendistato non necessariamente si trasforma in un contratto a tempo indeterminato), fuori da quella provincia, fuori da quella regione.
Su questo tema la RER ha messo a bando un complesso lavoro di ricerca sulla descrizione delle qualifiche in Emilia Romagna ed alcune province, quali ad esempio Lecco, sono impegnate da tempo su tali tematiche).
Per quanto riguarda il problema della certificazione delle competenze, e quindi dei crediti formativi, ancora lontano è l’obiettivo finale: se non si è definito a monte un sistema corretto, condiviso e diffuso sulla certificazione dei crediti, come è possibile consentire le passerelle tra il sistema del lavoro della formazione professionale o dell’istruzione, consentendo ai giovani di accedere a percorsi di istruzione-formazione che possano aprire loro nuovi e più alti orizzonti professionali?
Ecco perché è aleatorio il riferimento ai crediti professionali e formativi acquisiti (comma 2 articolo 48) così come è rischiosa, perché generica, l’apertura al «bilancio di competenze» ai soggetti privati accreditati (magari di emanazione datoriale, visto che al livello di competenze iniziale sono collegate qualifiche di ingresso e stipendi). La certificazione delle competenze ed il bilancio di competenze, ambiti che, come è noto, richiedono qualificate professionalità per essere esercitate in modo corretto è per questo più opportuno affidarle ad un ente super partes come l’ente pubblico (o a enti bilaterali che assicurino professionalità e competenza certificabili).
Inoltre sul tema della certificazione dei crediti in uscita si chiede cosa significhi «registrazione della formazione effettuata sul libretto formativo» di cui alla lettera i) del comma 3 dell’articolo 48. Cosa si intende per «libretto formativo»? Forse la scheda professionale già prevista da altra norma? Chi lo compila e secondo quale sistema?
E ancora, si chiede cosa si intenda quando ci si riferisce a «formazione e competenze adeguate» (lettera j) articolo 48) del tutore aziendale. Per l’importanza fondamentale di questa figura nella formazione dell’apprendista è necessario definirne le competenze.
Relativamente al contratto di inserimento viene ampliata la tipologia di utenza che può accedere a questo contratto rispetto al vecchio CFL. Non è chiaro, però, se gli incentivi previsti per l’impresa (articolo 60) sono percepibili solo se si inserisce una utenza svantaggiata (quella individuata alla lettera f) dell’articolo 55), oppure anche nel caso di inserimento di tutte le altre utenze (dalla lettera a) alla lettera f)). Se questa tipologia contrattuale non si intende riferita a particolari categorie di lavoratori, come pareva essere l’intendimento espresso dal Governo in precedenti dibattiti parlamentari, allora questo contratto si caratterizza essenzialmente per l’abbattimento del costo del lavoro.
Inoltre sarà molto importante definire come dovranno essere predisposti i progetti individuali di inserimento, a chi affidare la responsabilità e con quali competenze (si parla in modo generico del ruolo dei contratti collettivi di lavoro, ai sensi del comma 2, dell’articolo 56); diversamente, tutta la valenza del piano formativo personalizzato verrebbe meno.
Infine, sarebbe importante fare esplicito riferimento, anche nei contratti di inserimento analogamente a quelli di apprendistato, al tema della certificazione dei crediti in uscita; non è sufficiente «registrare la formazione nel libretto formativo» (comma 4, articolo 56), per responsabilizzare chi predispone il progetto individuale ad una attenzione particolare sia alla forma che ai contenuti del progetto e per fornire uno strumento in più alle persone per la capitalizzazione degli apprendimenti.
In conclusione, sottolinea di essersi soffermata dettagliatamente su alcune problematiche del provvedimento in titolo al fine di fornire un contributo propositivo, scevro di qualsiasi atteggiamento pregiudiziale, spesso rimproverato ai deputati dell’opposizione. Auspica quindi che di esso il Governo vorrà tener conto.
Ribadisce infine il giudizio completamente negativo sul decreto legislativo in esame, ritenendo fondamentale che nella stesura definitiva del testo il Governo tenga nella dovuta considerazione le indicazioni che il Parlamento vorrà formulare.
Domenico BENEDETTI VALENTINI, presidente, rinvia il seguito dell’esame alla seduta pomeridiana di oggi, già convocata per le ore 14,30.
Martedì 22 luglio 2003. – Presidenza del vicepresidente Giuseppe CAMO. – Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Maurizio Sacconi.
Schema di decreto legislativo recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30.
Atto n. 250.
(Seguito dell’esame e rinvio).
La Commissione prosegue l’esame, rinviato nella parte antimeridiana della seduta odierna.
Roberto GUERZONI (DS-U), dopo aver ricordato le critiche espresse dalle forze politiche di opposizione in ordine al disegno di legge di delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, esprime il giudizio negativo della sua parte politica anche riguardo allo schema di decreto legislativo in esame, posto che non è assolutamente dimostrato che esista un rapporto funzionale immediato fra crescita dell’occupazione ed estensione a dismisura di ogni forma di flessibilità; anzi, paventa il rischio che, di fronte ad una eccessiva frammentazione del mercato del lavoro, l’insieme del tessuto produttivo sia spinto verso livelli più bassi e non riesca a tenere il ritmo della competitività e della qualità della sfida.
Rileva poi che nella filosofia sottesa alla legge n. 30 del 2003 viene meno l’obiettivo principale sancito dal Consiglio di Lisbona, e cioè quello di prediligere la costruzione di politiche tese alla buona e piena occupazione, favorendo il lavoro qualificato, stabile e a tempo indeterminato, sottolineando che la flessibilità dovrebbe rappresentare una deroga rispetto a tale scelta fondamentale.
Proseguendo nella sua esposizione, dichiara di non condividere la scelta compiuta dal Governo di restringere i tempi a disposizione della Commissioni parlamentari per l’espressione del parere, presentando un unico «maxi decreto legislativo» che rende difficile, se non impossibile, la valutazione complessiva del provvedimento.
Inoltre, rileva la presenza, per fretta o per scelta consapevole del Governo, in più punti del testo in esame di norme per le quali si ravvisano profili di eccesso di delega rispetto ai criteri direttivi stabiliti nella legge n. 30 del 2003: richiama quindi l’articolo 14, concernente l’inserimento dei lavoratori svantaggiati e di quelli disabili, nonché gli articoli 25, 45 e 73 che introducono ex novo materie inerenti a profili previdenziali, su cui peraltro la legge di delega non interviene con alcuna riserva di legge. Parimenti, ritiene configurabile il vizio di eccesso di delega riguardo all’articolo 86 del provvedimento in questione in materia di associazione in partecipazione, che non trova riscontro nella legge n. 30 del 2003; del resto, anche il pendente ricorso alla Corte costituzionale da parte di alcune regioni per il non rispetto delle prerogative regionali della legge n. 30 sulle materie concorrenti testimonia l’eccesso di delega e di estensione interpretativa della legge in questione.
Formula altresì rilievi critici in merito al rapporto fra legge e contrattazione, ravvisando un elemento distorsivo nella legge stessa del rapporto esistente nella legislazione sul diritto del lavoro così come costruito negli ultimi anni e che ha sempre cercato di porre in primo piano la funzione e il ruolo della contrattazione collettiva. Nel testo in esame si assegna un ruolo sostanzialmente sostitutivo al contratto individuale, secondo un’ispirazione negativa per quanto riguarda la funzione essenziale del sindacato e delle grandi organizzazioni. In proposito, riterrebbe opportuno correggere il riferimento «alle» organizzazioni comparativamente più rappresentative con il riferimento «a» organizzazioni comparativamente più rappresentative, posto che il carattere cogente dell’erga omnes è sempre stato utilizzato in tutte le formule della legislazione sul lavoro.
Sempre in merito al ruolo della contrattazione collettiva, ricorda come il sottosegretario di Stato abbia fatto presente che in ogni caso la legge non può essere sostituita nella sua funzione generale dai contratti: richiamandosi a quanto già espresso nel corso di altre discussioni parlamentari, come per esempio quella sulla legge di rappresentanza, ritiene fondamentale cercare di mantenere un equilibrio che consenta alle organizzazioni sindacali e alla contrattazione di svolgere la loro precipua funzione. Il vulnus sul ruolo e sulla funzione della contrattazione è evidente nel provvedimento in esame per esempio laddove scompare la possibilità per la contrattazione di definire i limiti quantitativi del lavoro in affitto a tempo determinato, oppure in ordine al part-time, per il quale si limita al rapporto individuale, in assenza del contratto, la possibilità di adattare tutte quelle clausole elastiche che vengono dilatate a dismisura: non è ammesso il licenziamento, ma è rimasto il richiamo amministrativo, con ciò vanificando il ruolo e la funzione del sindacato.
Soffermandosi poi sulla tipologia di lavoro a progetto, portata dal Governo come esempio di normativa in grado di rispondere ad esigenze di regolamentazione e risanamento rispetto ad abusi attualmente registratisi nel campo dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, condivide l’obiettivo della lotta ai suddetti abusi laddove non si sia di fronte a forme autentiche di collaborazione ma a prestazioni di lavoro autonomo e qualificato; tuttavia, solleva perplessità sulla capacità delle norme delineate di rispondere a questa necessità. È vero che per la validità del rapporto delle co.co.co. viene richiamata l’esigenza di ricondurre tali contratti ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, ma reputa che la formulazione adottata presenti caratteri di eccessiva genericità. Per tale ragione, riterrebbe maggiormente efficace contare sull’estensione delle misure che contrastano questi abusi; importante sarebbe estendere ai lavoratori interessati garanzie adeguate e corrispondenti a quelle degli altri lavoratori, ma nulla si registra in tal senso nello schema di decreto legislativo in materia di tutele fondamentali a presidio della sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici per quanto riguarda la maternità, la malattia e gli infortuni sul lavoro.
In merito infine all’articolo 68, paventa il rischio che la disposizione vanifichi la norma contenuta nella legge di delega, secondo la quale, di fronte ad una falsa collaborazione coordinata e continuativa si giunge ad una trasformazione immediata del rapporto di lavoro. Il fatto che sia prevista una deroga alle disposizioni di cui all’articolo 2113 del codice civile rischia di rendere non agibili i diritti che possono essere oggetto di rinunzie o transazioni.
In conclusione, nel ribadire il giudizio complessivamente negativo della sua parte politica sul provvedimento in titolo, auspica una maggiore disponibilità da parte del Governo e della maggioranza a rispondere alle esigenze evidenziate nell’interesse di tutti i lavoratori, soprattutto di quelli più giovani.
Alfonso GIANNI (RC), rilevando preliminarmente che lo schema di decreto legislativo presenta elementi negativi maggiori rispetto al testo della legge di delega n.30 del 2003, ritiene che si tratti di un meccanismo intrinseco alla scelta della forma della legge di delega, tale da far considerare i due provvedimenti come un corpo unico, l’uno peggiore dell’altro.
Svolte alcune considerazioni di carattere generale sul panorama nel quale si colloca quella che è considerata una controriforma, una modifica sostanziale delle regole del diritto sul lavoro, osserva che l’operazione in atto risulta inserita in una scelta di politica economica che è ormai limpida, posto che considera difficile discutere della legge di delega n. 30 e dello schema di decreto legislativo in materia di occupazione e mercato del lavoro senza discutere contemporaneamente del Documento di programmazione economico-finanziaria e del corpo della manovra finanziaria che si profila, con ciò raccogliendo le dettagliate considerazioni svolte nella mattinata di oggi dal deputato Barbieri, relatore sul DPEF, che a sua volta si è richiamato sia alla legge di delega n. 30 del 2003 sia allo schema di decreto legislativo attuativo della stessa.
Atteso che il Governo ha scelto, pur non essendo obbligato, di entrare, a differenza di altri paesi europei, nell’articolazione di un processo di globalizzazione mondiale e di inseguire il modello inglese della deindustrializzazione, ravvisa nel disegno di politica economica dell’esecutivo quattro elementi fondamentali: innanzitutto, la scelta di accompagnare il declino industriale del paese, posto che il Governo non compie alcun tipo di resistenza a questa situazione. In secondo luogo, l’idea delle grandi opere intese non come modernizzazione del territorio, ma come rapidità di fuoriuscita dal paese di mezzi, servizi e agenti del sistema finanziario e produttivo. In terzo luogo, l’attuale Governo frena, rispetto a quello precedente, la privatizzazione del settore produttivo e commerciale, nonché dei settori del welfare state, il cui scopo non è quello di risolvere il problema del deficit ma quello di permettere alla finanza privata di avere un suo campo di azione. Infine, il quarto elemento fondamentale del disegno di politica economica governativo riguarda la questione della flessibilità: pur ritenendo il provvedimento coerente con la ricerca di una flessibilità estrema, considera fuori tempo questo aspetto, perché al contrario il nodo fondamentale sta nella stabilizzazione di una serie di rapporti di lavoro accesi per via di forme già esistenti di contratti a termine; il che è una necessità inderogabile per chi fa impresa.
Alla luce di questi elementi, ritiene che l’apparente incremento occupazionale registrato dalle ultime rilevazioni dell’ISTAT avvenga soltanto come forma di stabilizzazione di precedenti rapporti, come forma di regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari e riguarda i settori di bassa o limitata produttività. Tutto ciò, a suo avviso, indica una malattia del sistema e non la sua terapia e la legge n. 30 del 2003, nonché lo schema di decreto legislativo in esame, interviene fuori tempo rispetto all’esigenza di stabilizzazione della forza lavoro, con una foga di flessibilizzazione che raggiunge livelli ideologici.
Sottolinea poi una questione solo apparentemente terminologica, relativa alla necessità di chiarire, alla lettera j) dell’articolo 2 la definizione di «lavoratore», così come quella di «disoccupato di lunga durata fino a 32 anni», posto che non si comprende se ci si riferisca all’età anagrafica del disoccupato o alla durata della disoccupazione.
Giuseppe CAMO, presidente, in considerazione dell’imminente ripresa delle votazioni in Assemblea, invita il deputato Gianni a concludere o a completare il proprio intervento nella seduta di domani.
Alfonso GIANNI (RC) si riserva eventualmente di completare il proprio intervento nella prossima seduta.
Giuseppe CAMO, presidente, rinvia pertanto il seguito dell’esame alla seduta di domani.
AUDIZIONI INFORMALI
Martedì 22 luglio 2003.
Audizione di rappresentanti di UPI e di associazioni dei disabili (ANMIC, ANMIL, UIC, UNMS, FISH) in relazione allo schema di decreto legislativo recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30.




























