Un paese con i conti pubblici a posto, pochi debiti con l’estero, in cui stanno affluendo o tornando capitali, abituato ad esportare molto e, dunque, in grado di approfittare della ripresa economica internazionale, dove il lavoro costa poco ed è molto flessibile e la bomba del deficit pensionistico è stata disinnescata. Ma che paese è? E’ l’Italia, non negli occhi sognanti di qualche politico, trombato alle recenti elezioni, ma nel ritratto spassionato che una grande banca internazionale come Credit Suisse presenta ai suoi clienti. L’altalena italiana divide da sempre gli osservatori dei mercati internazionali e gli analisti della grande banca svizzera sono, da tempo, schierati dalla parte degli ottimisti. Naturalmente, nessuno nega che il debito pubblico italiano sia una montagna, che pagarne gli interessi sia un quotidiano esercizio di acrobazia e che il circolo virtuoso più crescita- più entrate – meno deficit pubblico – meno debito pubblico non riesca ad innescarsi. Se la crisi politica postelettorale dovesse scatenare la fuga dei capitali dalle banche e dai titoli pubblici italiani il paese sprofonderebbe nella crisi e nel rischio-default. Ma, se questo non avverrà, dicono al Credit Suisse, sarà perchè “i fondamentali economici italiani sono migliori di quanto, in generale, si riconosca”.
Quali sono questi fondamentali? Alcuni sono ben noti. La capacità di esportare, ma anche un basso livello di debiti con l’estero (il 25 per cento del Pil, contro il 90 per cento di Spagna e Portogallo) e una bassa quota di debito pubblico in mano agli stranieri (35 per cento), più suscettibili ad una fuga. Inoltre, restiamo un paese ricco, secondo le statistiche: questo significa che ci sono risorse che si possono rastrellare con la lotta all’evasione ed una patrimoniale.
Di altri fondamentali si parla meno. Ad esempio, abbiamo ormai un sistema pensionistico a prova di bomba (demografica). Mentre gli altri paesi d’Occidente hanno questo tarlo nascosto nei loro bilanci, noi, con le ultime riforme che hanno completato il passaggio al contributivo, abbiamo uno dei sistemi pensionistici più sostenibili al mondo: secondo la Commissione Ue, nei prossimi anni nell’area euro la spesa pubblica per le pensioni è destinata ad aumentare del 2 per cento del Pil l’anno. In Italia, scenderà dello 0,9 per cento.
Anche sul lavoro non è tutto nero. La competitività italiana sembra erosa dal fatto che il costo del lavoro per unità di prodotto è sceso meno che negli altri paesi deboli europei e, come risultato, quel costo, dal 2000 ad oggi, risulta cresciuto più da noi che in qualsiasi altro paese. Ma il costo orario del lavoro (che, dal punto di vista di una singola azienda può essere anche più importante) in Italia non è particolarmente alto. Un’ora di lavoro italiano costa più di un’ora spagnola o portoghese, ma meno di quanto gli imprenditori non paghino in Irlanda, Austria, Germania, Olanda e Francia. Non basta. Dopo tante massicce iniezioni di precariato, definire rigido il mercato del lavoro italiano diventa difficile. L’Ocse, l’organizzazione mondiale che raccoglie i paesi industrializzati, calcola ogni anno un indice di protezione dell’occupazione che misura, in sostanza, la flessibilità: per il 2012, solo i lavoratori inglesi sono meno protetti degli italiani. Francesi, tedeschi, spagnoli (nell’ordine) di più.
Il problema cruciale italiano resta la crescita: dal 2000, l’anno di ingresso nell’euro, il reddito pro capite è, di fatto, diminuito dello 0,4 per cento l’anno. Rispetto ai massimi di prima della crisi, il Pil italiano è oggi sotto di quasi l’8 per cento. La disastrata Spagna si è fermata al 5 per cento. Anche da questo punto di vista, però, i dati riservano una piccola sorpresa. Se la situazione generale non precipiterà, costringendo il nuovo governo ad una nuova manovra lacrime e sangue, c’è l’inedita possibilità di uno stimolo all’economia, che Mario Monti aveva, probabilmente, tenuto discretamente in serbo per un proprio futuro mandato a palazzo Chigi.
E’ uno stimolo più passivo che deliberato, ma questo importa poco. Tutto nasce dal deficit del bilancio pubblico che si fermerà, quest’anno, al 2,7 per cento del Pil, assai poco, rispetto allo standard degli altri paesi europei. Ma, se non si considera il pagamento degli interessi sul debito, si arriva ad un avanzo del 3,6 per cento del Pil. Nessuno, tranne l’Arabia saudita, fa meglio fra i paesi del G20. Ma non è questione di record. Il punto è che, grazie a questo avanzo primario, la stretta sul bilancio (meno spese, più tasse) che, nel 2012 è stata pari al 3 per cento del Pil, nel 2013 si limiterà all’1,2 per cento. In termini economici, significa che, rispetto a quanto accaduto l’anno scorso, ci sarà un allentamento della stretta, quindi più risorse per l’economia, in misura pari all’1,8 per cento del Pil, più di 25 miliardi di euro. Nessuna altra grande economia mondiale, neanche gli Stati Uniti di Obama, fruirà, quest’anno, di uno stimolo economico proporzionalmente comparabile.
Maurizio Ricci




























