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Dallo “spezzatino” di Tim alla guerra dei prezzi. Il futuro delle Tlc nel convegno della Slc-Cgil

Tommaso Nutarelli
Luglio05/ 2023

Partiamo da una data e dai numeri. È il 1997 e inizia la privatizzazione di Telecom. In quell’anno il principale operatore di telefonia del paese era tra i primi quattro o cinque al mondo, presente in molti paesi, in Italia dava lavoro a 125mila persone e investiva più di 6 miliardi di euro. Nel 2022 l’intero settore delle Tlc supera, di poco, i 100mila addetti, e il giro di investimenti che tutti gli operatori sono in grado di produrre arriva a 7 miliardi. Cifre che parlano di una profonda e strutturale crisi di tutto il comparto. Il convegno che si è tenuto stamani a Roma presso palazzo Wedekind, organizzato dalla Slc, il sindacato della telecomunicazione della Cgil, Tlc, l’Italia si separa dall’Europa? ha voluto fare luce sugli scenari che attendono la filiera, con il contributo di esperti e rappresentati dal mondo del lavoro e della

politica. L’evento è stato anche l’occasione per presentare il Centro Studi Connect, un nuovo strumento di ricerca ed elaborazione voluto dalla categoria.

Quello delle telecomunicazioni è un comparto sempre più strategico, sulle cui gambe camminano buona parte delle risorse del Pnrr e la transizione e lo sviluppo digitale del paese. Ma è anche un settore in profondo affanno. Tim è pronta a vendere la rete, separandola così dalla gestione del servizio, per far fronte a una situazione di eccessiva concorrenza e guerra dei prezzi, che hanno abbassato i ricavi delle aziende ma non la necessità di mettere soldi negli investimenti. C’è dunque un tema di sostenibilità che attraversa l’intera vicenda di Tim.

Per Fabrizio Solari, segretario generale della Slc, il tempo per evitare l’ennesimo spezzatino dell’operatore è veramente poco, quantificabile in settimane, al massimo qualche mese. Se non ci dovesse essere un’inversione di rotta, spiega Solari, l’Italia rischia di trovarsi in una posizione periferica e secondaria nei processi decisionali europei e internazionali. Il nostro mercato, ha proseguito, riscontra un’anomalia tutta sua, caratterizzata dal fatto che cresce la domanda ma crolla il fatturato. In altre parole il dumping a ribasso, la cui cifra più distintiva è la continua compressione dei prezzi per il consumatore, ha, con il tempo, determinato l’erosione di un modello industriale in passato vincente. Ecco perché le aziende, continua ancora Solari, devono avere risorse continue da destinare all’innovazione tecnologica e alle nuove competenze. Al contempo va ripensato anche il ruolo dell’Agcom, non solo come baluardo a difesa del cliente ma anche dell’intero comparto per l’importanza che riveste nell’interesse nazionale, all’interno di un rinnovato quadro normativo.

Tornando a Tim, Solari auspica una governance forte e l’abbandono di una vecchia visione, secondo la quale la continua cessione di una parte dell’azienda è l’unica soluzione per fare cassa, e l’accoglimento di un nuovo paradigma, in virtù del quale trattenere elementi strategici, come la gestione della rete, è benefico per il sistema paese e la compagnia che, se saprà ancora essere attrattiva, nel giro di pochi anni, a causa di una fisiologica dinamica di pensionamenti, potrà trovarsi in pancia nuove competenze. La complessità che le telco sono chiamate a governare richiede, per la direttrice di Asstel, Laura Di Raimondo, non più interventi isolati, ma una politica industriale di medio-lungo periodo. Le innovazioni che in sede di contrattazione il settore è riuscito a elaborare devono essere sorrette da una chiara idea del futuro del comparto, attraverso nuovi modelli di business e nuove competenze.

Insomma l’immagine di un comparto che è una sorta di gallina dalle uova d’oro, dove i guadagni per le aziende sono destinati a crescere in modo illimitato, non è più vera, sostiene Antonio Perrucci, direttore Laboratorio Ecosistema Digitale (Astrid-LED). Tra il 2013 e il 2022 il valore delle telecomunicazioni in Europa è calato del 30%. Anche la produttività e la base occupazionale hanno subito una contrazione. Nell’ultimo decennio, in Italia, i prezzi sono scesi del 33%.

Questa continua corsa al ribasso è stato un primo e significativo elemento attraverso il quale le aziende si sono fatte male con le proprie mani. Se poi in un primo momento il consumatore può dirsi soddisfatto, alla lunga non lo è perché poche risorse si traducono in servizi scadenti. Molte realtà hanno deciso di allargarsi in settori attigui, pensando di poter semplicemente trasmigrare la propria clientela dalla telefonia al gas o alla luce, senza però avere le competenze necessarie per compiere il salto. In questi dieci anni, continua l’analisi di Perrucci, si sono ridotti i processi di internazionalizzazione, mentre è cresciuta la presenza di fondi finanziari, che si muovono più velocemente, e non sono inclini a investimenti che richiedono tempi più lungi per dare i primi frutti. Da parte del pubblico, conclude Perrucci, deve venire una nuova spinta alle politiche industriali per il settore, nuove regole di antitrust e un’assegnazione delle frequenze che non abbia come unico scopo quello di far cassa per lo stato ma che lascia anche alle imprese i fondi necessarie per innovarsi.

Tommaso Nutarelli

Tommaso Nutarelli

Giornalista de Il diario del lavoro.