In passato, per giorni, di fronte ad un atto politico di rilievo, si discuteva nel merito delle ragioni che avevano condotto ad un esito più o meno convincente. Nel terzo millennio, a quanto pare, si è molto più sbrigativi: gli schieramenti contrapposti cantano vittoria e riprendono da dove avevano lasciato. Non pare essere questo, però, un comportamento funzionale ad una rivitalizzazione della partecipazione democratica, tutt’altro impedisce, invece, di correggere, cambiare se necessario, affrontare nel concreto i problemi che rimangono insoluti.
Ed è proprio il leader della Cgil Landini a dichiarare che il quorum non è stato raggiunto, con il sottinteso che troppa politicizzazione ha prodotto un fallimento. Lo sfratto a Palazzo Chigi, vagheggiato dall’opposizione, in realtà allontana non solo quella prospettiva, ma anche il ritorno ad un confronto sulle questioni reali del lavoro, della economia e del ruolo dell’Italia in Europa, che si sommano ad un disagio reale presente nel Paese, ma orfano di una proposta politica convincente.
C’è perfino dell’umorismo involontario in alcuni giudizi post referendum: come quello che assomma a vantaggio delle opposizioni perfino i no sulla cittadinanza, pur di dimostrare che il consenso popolare sta sfuggendo dalle mani della Meloni.
Sarebbe bene, invece, ragionare proprio sul perché di un fallimento, che fra l’altro chiama in causa per l’ennesima volta anche la scarsa partecipazione al voto, attestato a mala pena sul 30%.
Potremmo cavarcela con il detto, molto…sindacale nelle trattative, di non scambiare le pere con le mele. Ma la questione è molto più seria e va affrontata con uno spirito diverso da quello sloganistico, con il quale si pensa di poter aggirare gli ostacoli facendo finta che nulla sia avvenuto.
Se si voleva porre i problemi del lavoro al centro della attenzione del Paese, quei problemi esistono tuttora. Ma vanno oltre il mancato scardinamento della normativa di un Renzi che forse oggi si sentirà un poco vincitore. Le tutele vanno certamente rafforzate, ma perché servono strategie adatte alla rivoluzione tecnologica ed al sistema di piccole imprese, sempre più dominante nell’apparato produttivo del Paese. E le tutele hanno di fronte il grande punto interrogativo delle migliori scelte da fare per evitare che l’Italia resti fanalino di coda sul terreno dei bassi salari, così come non basta sostenere che la legge degli appalti va cambiata, ma occorre avanzare sul piano politico, come è stato fatto da tempo su quello sindacale, proposte concrete per le quali le battaglie parlamentari dovrebbero essere fondamentali.
Se a dispetto delle autogiustificazioni il risultato politico è stato in perdita, appare come ancor più importante il ruolo del sindacato. La politica ha tentato più di una volta di delegittimarlo a destra come in alcuni settori della opposizione. Oggi si è tentato di usarlo nei referendum, ma chi lo ha fatto si è trovato con un pugno di mosche in mano. Ed il ruolo del sindacato è quello di un riformismo intransigente ma produttivo di cambiamenti. Ed ha bisogno di tavoli di confronto e di trattative, come quello, ad esempio, da portare avanti con Confindustria. Recuperando al tempo stesso la migliore tradizione riformista, che era quella di lasciare alle parti sociali la discussione sui problemi, per intervenire a posteriori con interventi legislativi a sostegno.
Ma valorizzare il sindacato in questo momento storico, con tante incertezze nel mondo da parte della politica di sinistra, dovrebbe essere una scelta più che opportuna, per risvegliare quella partecipazione che non è delega alle élite, non è atto di fede nei confronti dei gruppi dirigenti, ma è la costruzione attraverso confronto, dissenso e proposta di un consenso che abbia ampiezza e solidità. Mentre oggi constatiamo fragilità e mutevolezza. Del resto la politica italiana si è troppo adagiata sui sondaggi e sugli slogan. Un terreno franoso per coloro che vogliono cambiare le cose. Non si tratta allora di portarsi davanti Palazzo Chigi nell’inutile attesa di vedere la Meloni uscirne, quanto invece di favorire confronti a più livelli, a partire da quello al momento più utile, che dovrebbe vedere le parti sociali indicare la strada per soluzioni che tanta parte del Paese attende inutilmente. La politica ha perso una occasione, forse anche perché ha smarrito il percorso che non si esaurisce nella contrapposizione, ma arriva al traguardo con la pazienza, la discussione, la capacità di affrontare gli errori, l’umiltà di considerare positivamente ciò che avviene nel sociale. In uno scenario più generale, si tratta probabilmente di far coesistere, in un modo per nulla facile, il misurarsi con i problemi che stanno creando malcontento nel Paese, con un piano più alto di elaborazione dei fondamenti su cui deve poggiare una politica efficace. Il riformismo può esser ancora un metodo prezioso, perché è presente nel sindacato, come pure in alcuni “frammenti” di politica. Ed è una via da sperimentare ancora una volta.
Paolo Pirani – Consigliere CNEL

























