Ius soli, scholae o culturae. La politica alla prova della cittadinanza, tra chi vorrebbe estenderla, con modalità più o meno ampie, e chi, invece, rigetta totalmente la questione. Ne abbiamo parlato con Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa.
Professor Fabris la cronaca politica di queste settimane ha visto al centro, tra i tanti temi, anche quello dell’estensione della cittadinanza. Che cosa ne pensa?
Prima di parlare di come estendere la cittadinanza la domanda preliminare che va posta è che cosa vuol dire essere cittadini e nello specifico cittadini italiani. Che cosa definisce l’identità italiana. Questo è un passaggio imprescindibile per una vera integrazione. Il nostro paese mette in campo uno sforzo eroico nell’accoglienza ma fallisce nel passaggio successivo ossia nell’integrazione. Integrazione che non va confusa con assimilazione.
Qual è la differenza?
Ognuno di noi ha delle peculiarità. E la persona straniera porta con sé caratteristiche culturali e religiose diverse che sono fonte di ricchezza. L’assimilazione è la strada per cui questa ricchezza viene distrutta e cancellata. L’integrazione è invece la capacità di far coesistere insieme queste diversità. C’è vera integrazione quando ognuno, secondo le proprie capacità, si mette al servizio e fa crescere la comunità della quale è parte nel rispetto di regole e leggi comuni condivise. Così ci si può definire cittadini.
Possiamo avere successo nell’integrazione?
Possiamo imparare dagli errori degli altri. Da un lato abbiamo il modello francese basato sull’assimilazione per cui, al di la degli aspetti tecnici, per diventare cittadini bisogna annullare tutto il proprio bagaglio culturale, arrivando così all’emarginazione o alle rivolte. Dall’altro c’è il modello comunitario tipico dei paesi anglosassoni, attraverso il quale si sono create comunità chiuse all’interno dello stato, che fanno tutto quello che vogliono, senza rispettare le leggi. Credo che se non commettiamo questi sbagli possiamo trovare un nostro modello di integrazione.
Abbiamo gli strumenti?
Gli strumenti ci sono. Penso alla legge 92 del 2019 che ha rafforzato l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole. È un’ottima legge perché pone l’insegnamento della materia in modo trasversale e lo rende un insegnamento all’essere cittadini. Bisogna però stare attenti nel non caricare la scuola di ulteriori oneri visto che è lei che deve anche occuparsi dell’orientamento dei nostri ragazzi.
Quindi venendo alle varie proposte avanzate, ius soli, ius scholae o culturae, qual è il suo giudizio?
Personalmente dire che il nascere in Italia ti rende cittadino italiano ha poco senso. La via della cultura, e quindi della scuola, è un ottimo percorso per sviluppare la cittadinanza, ma anche qui ci vuole cautela per le cose che abbiamo detto prima. Essere cittadini dopo uno, due o tre cicli scolastici potrebbe non bastare. Servono percorsi specifici. Inoltre anche gli stessi ragazzi italiani molto spesso hanno comportamenti che poco hanno in comune con l’educazione alla cittadinanza.
Oggi, tuttavia, quando si parla di cultura e identità lo si fa sempre più spesso con un tono oppositivo.
È vero e questo succede perché si pensa la propria identità e cultura in contrapposizione agli altri. C’è un ripiegamento individualistico che non riguarda unicamente il singolo ma anche le comunità. L’unico interesse è quello di soddisfare i propri bisogni e desideri e si vedono gli altri solo come dei nostri concorrenti che ci sono da ostacolo o come minacce nell’acquisizione dei diritti. C’è un rinchiudersi all’interno della propria identità che non viene posta in dialogo con le altre.
Sempre in tema di dialogo e inclusione alcune grandi aziende americane, Harley Davidson e Jack Daniels, hanno rimosso i loro programmi aziendali di inclusione. Mentre sul fronte del linguaggio si sta facendo strada l’idea che l’attenzione alle diverse sensibilità sia un limite alla libertà d’espressione e che certe parole non siano offensive semplicemente perché il vocabolario permette determinati usi. Lei che cosa ne pensa?
Partendo dalla prima domanda credo che ciò che è avvenuto in queste realtà sia molto interessante da approfondire. Alla base c’è un problema di metodo. L’imposizione di una serie di principi, anche se giusti, non è un buon modo affinché vengano accolti. E ancor di più in campo economico questo non sempre incide su i comportamenti di chi compra. Lo stesso discorso può valere per l’auto elettrica. È corretto tutelare l’ambiente ma forse una transizione imposta rischia di generare l’effetto opposto. Sul linguaggio bisogna intendersi su che valore diamo alla libertà. Se questa diviene libertà di dire tutto anche offendendo non va bene. La libertà è sempre in relazione e nel rispetto dell’altro.
Tommaso Nutarelli