La mobilitazione messa in atto, qualche giorni fa, dai lavoratori dei fast food ha fatto scalpore. Non solo per la portata su scala globale dell’evento, ma anche per la poca abitudine nel veder scioperare gli addetti di quel settore. Le rivendicazioni di chi opera nelle multinazionali del cibo riguardano, principalmente, le difficili condizioni di lavoro, dove precarietà salariale e contrattuale, turni massacranti e l’impossibilità di conciliare la vita lavorativa e privata sono all’ordine del giorno. Una vicenda che parte da lontano, ma che è ben lungi dall’essere risolta. Cristian Sesena, segretario nazionale della Filcams Cgil, ci aiuta a fare il punto della situazione.
Qualche giorno fa c’è stata una mobilitazione internazionale degli operatori dei fast food, quando ha preso il via l’intera vicenda?
La vicenda parte nel maggio 2014, in virtù di una campagna di mobilitazione promossa dal sindacato statunitense SEIU, Service Employees International Union che aveva come scopo l’aumento della retribuzione per i lavoratori dipendenti. Negli U.S.A non c’è un contratto collettivo nazionale, ma è presente un salario minimo garantito per legge. Questa battaglia venne ribattezzata “Fight for fifteen”, volta ad innalzare a 15 dollari l’ora, che corrispondono al salario minimo, i circa 7 dollari percepiti dai lavoratori dei fast food. Da questa iniziativa ha preso campo un’azione di coordinamento globale, che ha visto i sindacati aderenti all’Iuf, l’Associazione internazionale del turismo, riunirsi a New York per discutere delle condizioni di lavoro degli addetti dei fast food, a partire da chi opera in McDonald’s. Da qui, sempre nel 2014, ha avuto luogo il primo sciopero mondiale del settore.
Quali sono stati i punti d’incontro nell’azione promossa dai diversi sindacati?
Il terreno d’incontro è stato il riconoscimento che i lavoratori dei fast food operano in condizioni pessime, dove non sono tutelati i diritti sindacali. Naturalmente tutto questo deve essere declinato in base alla legislazione e alla cultura politico-sindacale del paese di riferimento. In Italia, ad esempio, il nodo della questione era ed è costituito dal mancato rinnovo del contratto nazionale di lavoro del turismo, con tutta una serie di ripercussioni negative sulle dinamiche salariali.
In una prospettiva internazionale, qual è l’attuale situazione di chi è impiegato nei fast food?
Al livello globale abbiamo tutta una serie di realtà poco positive, nelle quali i lavoratori sono costretti a subire condizioni di lavoro estremamente disagiate e difficoltose. Andiamo dalle situazioni più estreme, come quelle dei paesi del Sud-Est asiatico, dove i delegati sindacali o chi fa attività sindacale nei luoghi di lavoro rischia il licenziamento, al Regno Unito, dove uno dei maggiori problemi è costituito dai contratti “a zero ore”, per cui una persona è legata all’azienda pur non lavorando mai e senza ricevere, conseguentemente, il salario. Solamente nei paesi del Nord Europa, come ed esempio la Danimarca, le multinazionali del cibo offrono ai propri dipendenti condizioni di lavoro positive, costrette da una normativa molto stringente e severa.
È dunque possibile individuare un tratto distintivo che accomuna i lavoratori dei fast food?
Il tratto distintivo è la precarietà. Precarietà salariale, precarietà contrattuale, precarietà nelle condizioni di lavoro, dove non c’è nessuna tutela per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Manca inoltre qualsiasi possibilità di poter conciliare la vita lavorativa con quella privata. Stiamo parlando non solo di carenze sul versante attinente alla remunerazione, ma anche di un’assenza totale di misure di welfare, che tengano conto delle esigenze di chi opera nelle catene dei fast food. Ma c’è anche un ulteriore dato sul quale bisogna riflettere, ossia che, una volta, il lavoro presso un fast food era, nella maggior parte dei casi, un fast work, un tipo di occupazione che interessava prevalentemente studenti e giovani lavoratori, che consideravano la permanenza nel fast food un’esperienza momentanea, destinata a finire. Oggi non è più così.
Qual è, secondo lei, il motivo di questo cambiamento?
Il motivo principale credo che vada ricercato nella crisi economica. Molti lavoratori si sono trovati nella condizione dove il lavoro presso un fast food rappresentava l’unica opportunità di guadagno, visto la difficoltà nel reperire una nuova occupazione. Questo ha comportato un allungamento delle carriere, un abbassamento del tasso di turnover e la presenza di una popolazione lavorativa sempre più anziana. Tutto questo necessità di interventi strutturali, per far fronte alle esigenze di una forza lavoro diversa, e rispondere a problematiche che ormai si sono incancrenite.
Quali sono le condizioni degli operatori dei fast food nel nostro Paese?
In questo l’Italia non occupa una buona posizione della classifica, per il semplice fatto che abbiamo un contratto collettivo ormai scaduto da quattro anni e non rinnovato, ma anche per un mercato del lavoro fortemente fiaccato e stressato dalla crisi, che ha risentito di tutta una serie di provvedimenti legislativi e di strumenti, che, di certo, non sono stati di aiuto in questo senso. Basti pensare al modo in cui certe catene di fast food, come Burger King, hanno fatto uso dei voucher. Quando viene aperto un nuovo punto vendita, non sapendo se da lì si potranno ottenere degli utili, una grossa fetta della forza lavoro è costituita da voucheristi. In questo modo la multinazionale non si fa carico del costo del lavoro, ma ne aumenta ancor di più la frammentazione e la precarizzazione.
E sul versante delle relazioni sindacali?
Questo è un ulteriore punto di criticità. Non abbiamo relazioni sindacali con queste imprese ed è molto difficile instaurare, in questo senso, un dialogo. McDonald’s è caratterizzata da un atteggiamento di opposizione nei confronti del sindacato. Un’opposizione che si declina nell’impossibilità di fare contrattazione e accordi, anche di secondo livello. È ovvio che in un rapporto tra datore e lavoratore, non mediato dalle associazioni di rappresentanza, il lavoratore si trovi in una condizione di maggior debolezza, specie per la manodopera dei fast food, dove ci sono anche molti stranieri, con alle spalle una situazione sociale fragile, che si ripercuote anche su quella lavorativa.
Quale crede che siano i motivi di questo atteggiamento? Può essere influenzato dal fatto che sono aziende che provengono dal mondo del lavoro anglosassone?
Le spiegazioni di questo comportamento vanno rintracciate nella loro impostazione aziendale, secondo la quale un rapporto diretto tra azienda e lavoratore è sinonimo di una maggiore efficienza e produttività. Poi ci può stare anche il fatto che questa prassi sia un retaggio che si portano dietro dal mondo anglosassone, dove troviamo un mercato del lavoro molto più deregolarizzato. Ma credo che la causa principale vada comunque sempre ricercata nella loro cultura aziendale.
Se prendiamo una realtà come McDonald’s parliamo di un’azienda che, anche in tempo di crisi, ha continuato a far registrare delle buone performance. Non crede che questo sia in contraddizione con quanto detto sin qui?
Prima di tutto quando parliamo di McDonald’s dobbiamo fare un distinguo tra la rete diretta e i franchiser. In Italia solo il 20% dei negozi fa parte della rete diretta, e questo genera condizioni di lavoro molto diverse. Nella catena diretta c’è molta più attenzione al rispetto di certe norme, anche perché far emergere la presenza di una condotta antisindacale o non rispettosa dei diritti dei lavoratori comporterebbe, per la multinazionale, un danno d’immagine molto forte. Un discorso del tutto diverso se invece ci spostiamo in un franchiser, dove McDonald’s non ha un potere decisionale effettivo, ma può solo raccomandare di seguire un certo codice di condotta nella gestione del personale. Se poi questo non si verifica, l’azienda se ne lava le mani, perché la sua responsabilità si limita a dare delle indicazioni di comportamento su determinati aspetti. Per quanto riguarda poi la crescita dell’occupazione, McDonald’s fece, nel 2011, una campagna mediatica roboante sul fatto che credeva nell’Italia, e nella volontà di fare nuove assunzioni, per un totale di circa 2.500 posti lavoro, sui quali, tuttavia, oggi ben poco si sa. Stiamo parlando di un’azienda che sì durate la crisi ha mantenuto stabili i propri livelli occupazionali, ma come molte altre realtà.
C’è un filo comune che lega l’agire delle multinazionali del cibo?
La logica che muove il loro operato è che la compressione del costo del lavoro possa rappresentare una molla per far ripartire la produzione. Poi, quando parliamo di costo del lavoro non dobbiamo pensare unicamente ai soldi spesi dall’azienda per la retribuzione del dipendente, ma anche tutti quelli investiti nelle misure di welfare, o per la formazione nella sicurezza. Quando manca la vigilanza del sindacato è molto probabile riscontrare mancanze in questi ambiti.
Quali sono, ad oggi, i risultati raggiunti, e gli aspetti sui quali il sindacato deve migliorare?
Da un punto di vista sindacale si sono fatti passi in avanti, anche se i risultati sono molto tardi a manifestarsi, perché stiamo parlando di aziende che, storicamente, sono poco propense al dialogo con le parti sociali. Poi in quelle realtà dove queste sono più presenti, o dove c’è una legislazione più stringente, allora i miglioramenti si palesano con maggiore rapidità. La sfida per il sindacato deve essere di stampo globale, declinata nelle diversità del mercato del lavoro dei vari paesi, ma pensata appunto in una prospettiva internazionale e il più possibile unitaria. La difficoltà principale è che, nonostante i buoni intenti, non esiste un solo sindacato ma ne esistono molti, che, benché mossi dagli stessi obiettivi, operano con modalità e un retroterra cultura ed ideologico diversi. Mentre, dall’altra parte, troviamo le varie multinazionali che si muovono, in ogni paese, con la stessa logica, e in questo risiede la loro forza e la distanza che i sindacati devono ancora colmare.
Tommaso Nutarelli