Giampaolo Pansa era un grande giornalista, che riuscì a cambiare le abitudini, poltronesche, dei grandi inviati. Successe quando c’era strato il disastro del Vajont, se ricordo bene, e tutti gli inviati dei grandi quotidiani si fermarono nell’albergo a valle per scrivere il loro pezzo, sempre sulle stesse cose, le immagini da descrivere se le inventavano perché tanto, dicevano, erano sempre le stesse e loro ne avevano viste tante. Ma quella volta fu diverso, perché un giovane giornalista, appunto Pansa, volle a tutti i costi andare a vedere, si fece accompagnare su dai carabinieri e, attonito, si trovò un panorama tutto diverso da quello atteso, un’unica colata di fango che aveva sommerso tutto, tutto aveva cancellato. Lui tornò in albergo dagli altri, e cattivo come tutti i giornalisti, non disse nulla, gli altri descrissero il nulla, lui li sbugiardò.
Per ricordarlo con voi utilizzo un episodio che lo vide protagonista e che si rifà alla materia delle relazioni industriali. Nei primi anni settanta le abitudini di chi andava alle trattative per il rinnovo dei contratti di lavoro, specialmente quelli delle grandi categorie, erano cambiate radicalmente. Sulla spinta dell’autunno caldo la composizione della delegazione sindacale non si fermava, come prima, a una decina di persone, arrivavano in cento, anche duecento persone. Io allora ero il capoufficio stampa dell’Intersind, l’associazione che raccoglieva le aziende a partecipazione statale, dell’Iri principalmente, e seguivo quindi da vicino le trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Riunioni delicate, alle quali non erano ammessi estranei, tanto meno giornalisti. Ma arrivavano in tanti e nessuno poteva controllarli. E così Pansa si mise in coda con gli altri, entrò, si sedette a metà del cerchio di sedie, tra i sindacalisti e gli uomini d’azienda. Fatto sta che nessuno gli chiese chi era. I sindacalisti pensavano fosse di un’azienda, gli altri che era uno del sindacato. Si discuteva delle 150 ore e Pansa assistette al siparietto di chi affermava che era assurdo che si dovesse consentire di seguire i corsi più disparati. “E che, disse uno della parte aziendale, dobbiamo pagare anche i corsi di suonatori di arpa”? E il sindacalista che gli rispondeva che sì, certamente, anche quello se il lavoratore lo voleva.
Fatto sta che Pansa annotò tutto e tutto riferì sulle colonne de La Stampa, per cui allora scriveva. Fu uno scandalo, se la presero con me perché avevo fatto entrare un giornalista, ma mica potevo controllare tutti, sarebbe stato un altro scandalo. Lui fece un bell’articolo, gli altri non fecero una bella figura, si aprì un velo su queste riunioni attorno alle quali aleggiava il mistero. Un po’ di verità non fece male.
Massimo Mascini