Quando Jim O’Neill, guru di una grande banca d’investimenti, a inizio secolo inventò la sigla Bric, per segnalare quattro paesi a economia rombante (Brasile, Russia, India e Cina) aveva in testa la loro struttura: più industriale che di servizi, al contrario, ormai, dell’Occidente. Da qui il richiamo all’inglese “mattone”, ovvero brick (ci sarebbe voluto anche il Kenya o il Kazakhstan, ma tant’è), che nel mondo anglosassone individua proprio i settori tradizionali, ma anche una suggestione di solidità. Vent’anni dopo e proprio quando gli stessi Brics celebrano un ambizioso progetto di allargamento, bric fa venire piuttosto in mente il francese bric-à-brac che indica un insieme alla rinfusa di oggetti spaiati e disparati. La sfida che i vecchi Brics, più i nuovi che dovrebbero aggiungersi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia saudita, Emirati) lanciano ad un sistema internazionale a trazione occidentale non va, infatti, sottovalutata. In prospettiva, disegna un diverso assetto della geopolitica mondiale, non necessariamente quello, meno inquietante, che viene propagandato nei manifesti degli stessi Brics. A oggi, però, la sfida vale più per quello che rifiuta che per quello che promette.
Jim O’Neill aveva ragione nell’indicare che l’emergere dei Brics sottolineava anzitutto l’esigenza di rivedere una struttura degli strumenti di gestione dell’economia mondiale, tutta segnata dall’egemonia dell’Occidente. Strumenti cruciali per l’equilibrio finanziario, come il Fondo monetario internazionale, o per lo sviluppo, come la World Bank, per il commercio, come il Wto, sono, senza sfumature, a trazione euroamericana. Quando si riunisce il G7 – di fatto gli Usa, più l’Europa – sembra che si riunisca il governo dell’economia mondiale. Invece, valgono solo un terzo del Pil globale, più o meno quanto gli stessi Brics, che riescono ad aver voce soltanto nell’inutile parlatoio del G20.
In realtà, questi conti sul Pil valgono solo a parità di potere d’acquisto: tradotti in quello che conta nel commercio internazionale, cioè in dollari, lo scenario è diverso. Questo non significa che la rivolta dei Brics non segni una svolta storica. Difficile che l’ordine economico-finanziario scaturito dalla seconda guerra mondiale e le sue istituzioni sopravvivano imperturbabili a questa sfida senza modificarsi o senza esserne seriamente intaccati.
Da qui a dire che è nato un nuovo attore geopolitico la distanza non è breve. Quando nel 1955, a Bandung, nacque il movimento dei Non Allineati almeno si poteva dire che condividevano l’equidistanza fra i due blocchi della guerra fredda. Qui, invece, il capofila di uno dei blocchi – non la Russia, ma la Cina – siede in prima fila, anzi, ha una quota di maggioranza: il 70 per cento del Pil dei Brics, anche allargati, è cinese. Una situazione scomoda e sgradita per paesi come il Brasile o l’India. Nè si può parlare di condivisione di valori: nei Brics ci sono autocrazie e grandi democrazie, come, appunto, Brasile o India. E gli scontri sono aperti: a pochi giorni dal summit dei Brics, la Cina ha pubblicato un atlante che ha subito destato la “forte protesta” (tra gli altri) di Nuova Delhi perché aggiusta i confini, incorporando territori che l’India rivendica come propri. Non sono dispute in punta di diplomazia: sull’Himalaya, cinesi e indiani si sparavano neanche due anni fa. Del resto, nel gruppo dovrebbero trovarsi, spalla a spalla, due nemici giurati, pronti alla guerra, come Arabia saudita ed Iran.
Se la coesione manca sul lato geopolitico, non è molto più solida su quello geoeconomico. Snobbare l’Occidente non è possibile. Per l’India, i mercati occidentali valgono il doppio di quelli degli altri Brics. Nella lista cinese dei 15 mercati di esportazione più importanti, dei Brics ce n’è solo uno: l’India. Ecco perché l’idea di aggirare il dollaro con una nuova valuta Brics appare velleitaria: se i rapporti Berlino-Roma nell’area euro vi appaiono difficili, immaginatevi Mosca-Pechino o Riad-Teheran. Più semplice giocare la carta del rembimbi (la moneta cinese) per tutti. Ma, al di là di qualche partita ufficiale, se, poi, alla fine, quei rembimbi vanno comunque cambiati in dollari per comprare altre cose, il gioco non vale la candela. E il rembimbi ha il fiato che ha: un mercato finanziario, una liquidità, oggi incomparabili con la profondità e la fluidità del mercato americano.
In realtà, anche qui, vale per i Brics, più della promessa, il rifiuto. Quello che preoccupa quasi tutti i governi interessati è il ruolo del dollaro, non come moneta principe, ma come strumento di sanzioni che, in effetti, Washington distribuisce con fin troppa disinvoltura, tagliando fuori – negando loro i dollari – intere economie invise alla Casa Bianca. Rivelatrice, qui, è la rinuncia, alla fine, nonostante i numerosi appelli, da parte di Washington e Bruxelles a requisire le riserve russe all’estero: 300 miliardi di dollari, un vero tesoro per gli amici dell’Ucraina. Sia Janet Yellen che Christine Lagarde hanno fatto capire di temere – davanti alla requisizione di fondi legittimamente investiti – un fuggi fuggi delle tesorerie del Global South, sufficiente a far barcollare euro e dollaro.
Per quanto velleitaria, insomma, l’offensiva dei Brics pone l’Occidente di fronte alla necessità di riequilibrare pesi e contrappesi dell’economia mondiale, anzi della governance, come si usa dire. Ma questi sono discorsi da diplomatici. La realtà che il nuovo slancio dei Brics suggerisce è che si sta compiendo – fra finte, contraddizioni, tortuosità – un passaggio storico. La nascita di una nuova aggregazione mondiale, solida o fasulla che sia, è comunque un momento chiave per la lenta, ma costante, costruzione di un blocco o, comunque, di un sistema di rapporti ad egemonia cinese, da contrapporre agli Stati Uniti. Per ora, non è molto di più. Ma è l’apparire in superficie della frattura che si sta creando nel mondo: barriere commerciali, la frammentazione di Internet, crociate culturali. Non è più il mondo di venti anni fa.
Maurizio Ricci