Palermo come Beirut. Bombe, mitra, pistole, un arsenale da guerra per lo scontro tra clan mafiosi che insanguina la città dal 1979 al 1986, con un bilancio terribile: mille morti. Sono gli stessi anni in cui al nord risplende la “Milano da bere’’. Al sud, a Palermo, invece si muore. E’ la storia di questa mattanza che Antonio Calabrò racconta nel suo nuovo libro.
La storia inizia il 23 aprile 1981, quando viene ucciso Stefano Bontade, potente boss di Cosa Nostra. È un omicidio dirompente, che semina il panico nelle file delle più antiche famiglie mafiose, ribaltando gerarchie, alleanze, legami d’affari. Centinaia di altri morti seguiranno. Quasi tutti per mano dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano e dei loro alleati, i Greco, i Brusca, i Marchese: i boss in ascesa, che uccidono per dominare il campo della droga, degli appalti pubblici, delle armi. Ma non è solo una guerra interna alla mafia. Nel mirino dei killer entrano anche uomini al servizio delle istituzioni, come Piersanti Mattarella e Pio La Torre, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Carlo Alberto dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà, e poi poliziotti e carabinieri, magistrati, giornalisti, medici, imprenditori, persone che non si sono piegate alle intimidazioni, ma che hanno difeso la legge dello Stato contro la violenza dei boss.
Palermo, intanto, sta a guardare: in troppi sono impauriti, indifferenti o spesso anche complici nella rete degli interessi mafiosi che inquinano politica, economia, società. La svolta avviene con un ‘altra data chiave, il 10 febbraio 1986: l’avvio del maxiprocesso a Cosa Nostra nell’aula bunker dell’Ucciardone segna il riscatto dello Stato. Ottenuto anche grazie alla tenacia del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto, con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino tra i protagonisti. Per i capi di Cosa Nostra arrivano condanne esemplari, confermate in Cassazione.
In pagine intense di cronaca incalzante e documentata, con speranza e passione civile, Antonio Calabrò rende omaggio al sacrificio di chi non si è arreso e invita a non abbassare la guardia contro un’organizzazione apparentemente in parziale disarmo ma che, come affermava Leonardo Sciascia, è da temere proprio quando non spara.