di Renata Polverini, segretario generale Ugl
Vorrei inserirmi nell’interessante dibattito che si è acceso ancora una volta sulle tesi del professor Ichino, non tanto per rispondere alle tre domande che l’insigne giurista pone al sindacato, quanto per cercare di contestare la direzione di marcia che esse indicano. La provocazione sugli statali fannulloni prende le mosse, cosa poco evidenziata sino ad oggi dagli intervenuti nel dibattito, dall’analisi sulle differenze di produttività individuale tra i lavoratori che il professore ha affrontato con una serie di articoli usciti su Il Corriere della Sera a partire dal 17 agosto. In questi articoli Ichino sostiene che dal momento in cui il lavoro umano è diventato sempre più immateriale, superando la scientifica segmentazione fordista, è difficile distinguere quanto incida sul rendimento l’impegno della persona, la sua capacità professionale, le sue attitudini e, viceversa, l’organizzazione in cui (il lavoratore) è inserito. Il giurista, perciò, si domanda – in modo piuttosto brutale ma, come sempre, efficace – quanto sia “lecito spremere il lavoratore” in una giusta composizione degli interessi delle imprese e della tutela della dignità e dei diritti delle persone, affrontando un tema sul quale, negli stessi giorni, il Santo Padre ha lanciato degli ammonimenti impegnativi per tutti i cattolici ma, a nostro avviso, utili ad un mondo che corre per il gusto di farlo senza badare alla direzione di marcia.
Su quei “pezzi” del professor Ichino avrei, anche come donna e non solo come segretario generale dell’Ugl, molte obiezioni da fare, a partire dalle considerazioni che il professore svolge sul mobbing. Mi riesce difficile, infatti, accettare l’idea che un comportamento vessatorio nei confronti di una lavoratrice possa essere “innescato” dal fatto che “un’impiegata sia un po’ ombrosa o di carattere spigoloso”. L’accondiscendenza, magari verso il capo, arrotonda di certo molte spigolosità ma, nel 2006, non dovrebbe essere il requisito principale della donna che lavora.
E, ancora, ho più di una perplessità sull’incipit con cui Ichino apre la serie dei suoi articoli: “si registra da molti anni (in Italia) una tendenziale riduzione del numero degli operai morti e feriti, lenta ma evidente” mentre sarebbe in aumento la “depressione da stress”. Certo, quest’ultima c’è e non è solo un fenomeno isolato o, peggio, una predisposizione personale; affermare, però, che nel nostro Paese è in atto una “evidente” riduzione dei morti o feriti sul lavoro vuol dire ignorare le tragedie che, negli ultimi mesi, hanno funestato la Penisola.
Ma è l’accusa di “fannullismo” ai pubblici dipendenti che ha colpito di più i commentatori e, sinceramente, anche noi; e non tanto perché abbiamo degli statali un’opinione diversa, ma perché la (dichiarata) provocazione di Ichino non si limita alla banalità, se vogliamo, di licenziare chi non rispetta i doveri contrattuali, ma indica un obiettivo e propone un metodo francamente inaccettabili. L’obiettivo, a nostro avviso, è quello di considerare il lavoro per lo Stato alla stregua di qualsiasi altra prestazione e, al tempo stesso, di guardare all’amministrazione pubblica come ad un peso, un orpello burocratico, un fattoapposta per ostacolare la libera iniziativa privata. Del resto l’invadenza dello Stato, proclamata dai liberalizzatori a 24 carati, sta cogliendo significativi successi contro i “poteri forti” del Paese e, se si comincia con i tassisti, non si può non proseguire che con i dipendenti pubblici.
A nostro avviso, invece, non è possibile ignorare che buona parte delle strutture materiali e immateriali (di cui oggi godono i campioni del privato) che ancora reggono questo Paese sono state messe in piedi da manager e dirigenti pubblici e che una certa decadenza del senso di responsabilità di qualcuno, che non facciamo fatica ad ammettere, è andata di pari passo con il venir meno del senso dello Stato (che parola desueta mi è venuta in mente) da parte di troppi uomini politici. Così come non si può non considerare che il “rendimento” dei dipendenti pubblici è ancora molto legato all’indirizzo – in termini assoluti non contestabile – che gli arriva dalla politica.
Ma il metodo, come dicevo, proposto dal professore per risolvere il problema degli statali fannulloni è ancor meno convincente. Intanto perché assomiglia più alla decimazione (dovrebbe essere licenziato, da una commissione di stampo giacobino, uno statale ogni cento; questi potrebbe fare ricorso al giudice previa indicazione – e qui facciamo un balzo in avanti arrivando ai metodi sovietici, altro che “litisconsorzio necessario” come sostiene Michele Salvati – di un altro lavoratore da licenziare in sua vece…) che ad una parvenza di Stato di diritto al quale, per pigrizia, magari, ci eravamo ormai abituati.
Ma anche perché se passa il sistema che, partendo da una provocazione e passando da un forum sul giornale all’immancabile sondaggio di Mannheimer, si decida, inaudita altera parte, la sorte di quattro milioni di pubblici dipendenti, vuol dire che – senza colpo ferire – siamo arrivati ad un concetto di democrazia piuttosto distante da quello da dove siamo partiti e, per fortuna e forse anche per merito dei deprecati sindacati, ancora siamo.




























