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Home - Primo Piano - Il conflitto impossibile?

Il conflitto impossibile?

di Mimmo Carrieri
1 Giugno 2023
in Analisi
Governo, Landini: il 9 febbraio Cgil, Cisl e Uil in piazza per aprire vertenza

E’ vero che in Italia ci sono pochi conflitti? Ovvero, detto con un altro linguaggio, che le tensioni sociali, pure chiaramente presenti, stentino a sfociare  in conflitti aperti e a cascata?

Questi interrogativi circolano, qualche volta in modo esplicito, davanti ad una stagione di lotte sociali e sindacali che ha toccato i paesi europei più grandi: come  il Regno Unito, la Germania e soprattutto, ed in modo continuo e vistoso, la Francia.

Il primo paradosso su cui attirare l’attenzione è che queste lamentele, riferite ad un sindacato poco ‘combattivo’ o non in grado di propagare il malessere sociale, vengono in particolare da quella stampa ‘progressista’ che solo poco tempo prima menava scandalo per lo sciopero di Cgil e Uil contro  il governo Draghi. Una stampa ed un’opinione, fisiologicamente poco radicata nei gruppi svantaggiati, ma che ne ha scoperto le virtù potenziali come antidoto alla destra al governo. E immagina che sia possibile trainare facilmente, in modo dirigista e dall’alto, mobilitazioni di vasta portata. Ragionando con un evidente tocco di strumentalità, dovuto al fatto che questa working class – ora evocata e addirittura invocata – viene considerata  comunque alla stregua di una ‘facile’ massa di manovra.

Questo ragionamento, al di là delle ragioni di bon ton culturale e politico, semplifica troppo la questione, come cercheremo di spiegare.

Intanto partiamo dai dati: le statistiche sugli scioperi ci ricordano che l’Italia resta in occidente tra i paesi con una maggiore propensione conflittuale. Ed inoltre, come sanno bene gli utenti, la nostra esperienza quotidiana ci porta a contatto con una miriade di micro-conflitti, qualche volta mascherati anche da scioperi o ‘scioperini’ generali, che interessano tanti servizi pubblici essenziali, in particolare nel settore dei trasporti.

Quindi le osservazioni critiche, da cui siamo partiti, si riferiscono al fatto che tutti questi rivoli conflittuali non confluiscano in mobilitazioni collettive ad ampio spettro, dotate di vasta risonanza e visibilità.

Dobbiamo quindi interrogarci se vi siano delle ragioni nella cultura organizzativa italiana (in particolare dei sindacati) che spieghino questa presunta anomalia. Ammesso che   sia davvero in corso un ciclo di lotte in Europa: cosa che in modo appropriato si attaglia in realtà al solo caso francese, il quale ha costituito un’eccezione abituale al riguardo. Ed ammesso che un maggiore dispiegamento conflittuale sia da considerare comunque auspicabile e desiderabile.

A questo punto diventa  però necessaria un ‘ulteriore osservazione.

Cosa misura il successo di queste mobilitazioni conflittuali? La loro persistenza nel tempo, la loro capacità di operare come attore politico, oppure ancora i risultati conseguiti?

In molti casi, di prevalente natura contrattuale, la partecipazione è risultata elevata e si sono ottenuti buoni risultati, almeno sul piano retributivo.

Ma in altri casi, come quello francese, il più vistoso e il più politico, il successo nella partecipazione sociale non equivale a garantire il raggiungimento di esiti adeguati. La continuità di ondate di protesta sociale può anche risultare confortante; ciononostante bisogna mettere in guardia contro la sindrome delle ‘eroiche sconfitte’ (come recitava il titolo di un famoso studio dedicata alle ‘belle’ battaglie del movimento operaio, finite con una sconfitta).

La critica verso le prassi italiane si concentra quindi sulla capacità di dare vita, nella vicenda sociale del nostro paese, a battaglie unificanti, in grado di tenere unito, anche sul piano simbolico, un fronte ampio.

Le altre realtà nazionali che vengono citate possono disporre a tal proposito di qualche facilitazione di partenza.

Decisamente più facile il bersaglio unificante nel caso francese. Un bersaglio di natura politica, dal momento che il suo catalizzatore è la proposta del governo di innalzare l’età pensionabile. Dunque  una battaglia esplicitamente di natura politica. Al riguardo va citata la tesi di Melenchon (in un’intervista all’Unità), che quella che è partita come una lotta sociale e sindacale si è trasformata  progressivamente in una ‘lotta di popolo’ (secondo la sua definizione). La ragione è che si  è – si sarebbe – tradotta in una opposizione al governo che ha toccato una varietà di strati sociali, inclusi molti giovani, più ampia di quelli immediatamente toccati dal provvedimento governativo.

Invece la situazione inglese si presenta come relativamente più lineare. In questo caso le rivendicazioni salariali, in particolare di alcune categorie pubbliche come la sanità, hanno assunto una immediata valenza generale, a causa della dialettica con le posizioni del governo conservatore, sostanzialmente ostile  a risarcimenti per i gruppi colpiti dall’inflazione.

Diverso appare il caso tedesco, nel quale i conflitti hanno avuto una più chiara valenza salariale e contrattuale. La risonanza di questi episodi è da collegare piuttosto alla loro rarità. La loro risonanza è inversamente proporzionale alla loro scarsa numerosità (una situazione pressoché speculare rispetto a quella italiana) in un sistema di relazioni industriali normalmente a-conflittuale.

Inoltre in tutti i paesi considerati l’impatto degli scioperi nei servizi è senz’altro maggiore che in Italia, perché mancano regole per contenere gli effetti delle azioni conflittuali: diversamente da quanto accade da noi, che unici disponiamo, ormai da molti anni, e a differenza dei paesi citati,  di una legge orientata a istituzionalizzare il conflitto terziario,  limitandone gli effetti  sui cittadini.

Inoltre siamo davvero sicuri che questi conflitti (che non hanno un evidente denominatore comune) siano anche da considerare come ‘nuovi’? come  ad esempio furono quelli del 68-74, che si rivelarono idonei a unificare larga parte dei gruppi che esprimevano una domanda di cambiamento. Allo stesso modo possiamo considerare queste mobilitazioni come un segnale dell’unificazione  tra i lavoratori  della ‘vecchia’ economia e quelli riprodotti dalla new economy e dalla digitalizzazione?

Insomma quello che è in gioco è l’esistenza, o meno, un salto di qualità nella protesta sociale e nell’azione sindacale: fondato sulla capacità di identificare un collegamento, materiale e ideale, tra i lavoratori della vecchia working class, prevalentemente industriale, e la nuova classe operaia,  generalmente terziaria, dei settori economici in crescita, dalla logistica, ai rider, a tutti i lavoratori delle piattaforme, all’insieme dei precari e dei lavoratori poveri.

Ma troviamo davvero questo tratto sociale unificante ed innovativo dentro gli attuali conflitti che si manifestano in Europa?

Non ho informazioni e dati sufficienti a disposizione. Ma in base alle evidenze disponibili a  me sembra di no. Infatti vediamo mobilitati in prevalenza lavoratori per così dire tradizionali, in particolare operanti nelle diverse filiere del settore pubblico e/o dei servizi essenziali. Poco mobilitati gli altri (tra i quali troviamo molti immigrati), assente o in embrione e non ancora decollata una nuova e più vasta  coalizione sociale.

Ma dopo aver seminato alcuni dubbi – peraltro legittimi – in relazione alle dinamiche degli altri paesi, cerchiamo  ora di inquadrare le peculiarità della situazione italiana.

Il primo aspetto da sottolineare è che non risulta agevole e naturale far emergere obiettivi automaticamente generalizzanti. Sembra strano,  se si osserva la diffusione del fenomeno dei bassi salari e in generale l’accresciuto svantaggio relativo delle nostre retribuzioni negli ultimi dieci-quindici anni. Tutto questo è vero ma non si traduce in modo meccanico in incentivi all’azione collettiva: questi operano se mobilitarsi appare come  una scelta necessaria e più vantaggiosa rispetto ad altre opzioni. Non dipende dunque dal tocco di bacchetta magica di Landini (che pure non ha sicuramente idiosincrasie verso il ricorso allo sciopero) o degli altri  dirigenti sindacali. Ma dalla capacità di accendere una miccia che allarga la spinta a partecipare. L’universo sociale di riferimento  è troppo eterogeneo ed appare complicato trovare un approdo condiviso o un bersaglio comune, come accadde invece a Cofferati all’inizio del secolo (e di qui un successo vasto e prolungato).

Anche una proposta come quella – sostanzialmente giusta e da promuovere – del salario minimo legale non svolge questa funzione ‘generale’. Infatti essa riveste un significato trainante solo per la parte più debole ed esclusa del mercato del lavoro, che percepisce retribuzioni davvero modeste se non miserabili. E difficilmente opera come lievito mobilitante per tutti gli altri.

Questa difficoltà di unificazione va anche in qualche misura ricondotta all’azione del governo in carica. Questo ha recentemente approvato misure, nel ‘decreto lavoro’,  che integrano i salari dei lavoratori con redditi più bassi. Misure temporanee (per ora) e di natura parzialmente risarcitoria: ma che non agevolano la costruzione di una piattaforma sindacale in grado di coinvolgere e mobilitare tutti (ed ovviamente anche questi segmenti, non piccoli). Questo aspetto ci ricorda anche un’altra strana evidenza italiana. E cioè il fatto che, in modo maggiore che in altri paesi, i gruppi più svantaggiati si sono rivolti sul piano elettorale  in prevalenza a destra e nelle ultime elezioni generali hanno votato in maggioranza per il partito della premier Meloni.

Quindi, sia pure al piccolo trotto e con risorse limitate, questa destra al governo fa esplicitamente i conti con queste ampie porzioni di ceti popolari che la sostengono: anche se la sua ossatura sociale e i suoi azionisti di riferimento si trovano principalmente a ridosso delle associazioni datoriali dei piccoli imprenditori del commercio e dell’artigianato.

Quindi non è facile, e tutt’altro che scontato, trovare un denominatore comune che possa andare bene all’intera  platea di lavoratori: le cui istanze ed aspettative si sono differenziate nel corso del tempo piuttosto che convergere.

E qui ci troviamo di fronte ad un altro paradosso: i sindacati italiani sono vittime della loro maggiore forza organizzativa (iscritti, radicamento sociale, presenza istituzionale, etc.). Proprio perché in modo più nitido dei loro colleghi si pongono l’obiettivo di unificare il lavoro vecchio e nuovo, e partono da una dotazione organizzativa più ragguardevole dei loro corrispettivi, si trovano alle prese con dilemmi non facili da sciogliere. In nome di una sintesi socialmente accettata non possono spingere sull’acceleratore delle categorie più forti, e nello stesso tempo, per carenza di potere contrattuale, non appaiono in grado di innalzare l’asticella dei salari e dei diritti per i gruppi in maggiore difficoltà, dai precari ai working poor.

Come abbiamo già rilevato, a questo ostacolo si aggiunge anche il dato che gli scioperi italiani  (che ci sono) nei servizi essenziali, a differenza di quelli francesi o inglesi,  in ragione dei vincoli  legislativi, non sono in grado di bloccare tutto: e quindi  non possono massimizzare il loro potere vulnerante,  svolgendo quella funzione di cassa di risonanza generale, che invece ha preso quota altrove. In questa sede sfioriamo soltanto questo capitolo che  sarebbe a sua volta da approfondire. La nostra legislazione infatti non esclude alcune smagliature. In virtù delle quali  è divenuto possibile che  si siano alimentati alcuni effetti perversi: come quelli di piccoli sindacati che producono anche grazie al cosiddetto ‘effetto annuncio’, blocchi o impatti a larga scala. Resta il fatto che da noi, grazie alla garanzia dei servizi minimi, il blocco non può mai diventare totale e dunque anche la visibilità viene in certa misura ridimensionata.

Accanto a questi fattori importanti mi sembra importante sottolinearne un altro di fondo. A mio avviso esiste una differenza di fondo nel paradigma d’azione, consolidatosi nel tempo, del sindacalismo italiano nella comparazione con altre culture sindacali. Nel caso italiano l’aspirazione a svolgere il ruolo di ‘soggetto politico’ dell’insieme del lavoro conduce strutturalmente a non considerare la mera protesta nel raggio dei propri comportamenti. L’agire strategico delle nostre organizzazioni non esclude il conflitto e qualche volta lo privilegia, purché sia sempre finalizzato al raggiungimento di obiettivi positivi – un esito più avanzato, la soluzione di un problema – di segno generale.

Animare un conflitto con l’idea  semplicemente di riprodurre altro  conflitto si risolve in questa chiave in un’operazione fine e a sé stessa, che proprio in quanto tale viene esclusa a priori dai nostri sindacati. Essi non sono meccanicamente contro le ‘riforme’ proposte dai governi, anche non amici, ma hanno maturato l’attitudine e l’abitudine  a proporre in ogni caso altre ‘riforme’. Quindi  essi non si muovono dentro un’azione meccanicamente difensiva o di rimessa, ma  all’interno di una logica che  li spinge a misurarsi in positivo e con proposte sul terreno dell’innovazione.

Insomma nel caso italiano mobilitazioni collettiva a grande scala sono più complicate da impostare e  da mettere in campo. Ma non impensabili o da ritenere impraticabili, come la storia ci insegna. Non possono  però prendere corpo sulla base di una petizione di principio mediatica, come sembra ritenere una parte della stampa. Bensì attraverso un’attività laboriosa di ricucitura sociale e di intermediazione,  che faccia lievitare l’insicurezza diffusa in una proposta di trasformazione. La società sta ribollendo, e le proteste degli studenti sul caro affitti (che è un problema più generale) ne sono un primo segnale.  I tanti fili dell’insoddisfazione sociale sono in movimento e forse ad un certo punto si potranno cumulare. E i sindacati, almeno quelli più disponibili a mettersi in sintonia con la parte debole della società, potranno fare la loro parte e contribuire alla propagazione organizzativa delle ansie e delle richieste collettive.

Questo passaggio non è affatto da escludere: il capitale organizzativo dei sindacati ne costituisce una buona premessa e garanzia. Ed inoltre questi sono destinati ancora a svolgere una funzione di supplenza verso la politica di sinistra, assente o afona.

Appare comunque difficile immaginare che basti  un  bel gesto o la volontà  ‘politica’ per produrre grandi eventi sociali, di ampie dimensioni e più o meno catartici: come assume certa opinione facilona e di corto respiro. Ma dobbiamo augurarci che se prenderanno piede in Italia tali  mobilitazioni collettive servano in primo luogo a favorire il raggiungimento di alcuni di quei beni pubblici di cui il nostro paese ha bisogno.

Mimmo Carrieri

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