Il compagno robot ti frega senza neanche farsi vedere, perché non ha nè braccia, nè gambe, nè testa. Solo qualche riga di codice, immagazzinata, anzi “storata” in un server remoto. Con l’economia che viaggia allo zero virgola e gli investimenti che latitano, l’automazione non è il problema più pressante sul fronte del lavoro. Ma che succederebbe, se l’economia viaggiasse (finalmente) all’1,5-2 per cento? Nonostante gli sviluppi della tecnologia, i progressi dell’intelligenza artificiale, il futuro prossimo non è, però, un automa che siede al mio posto. Ma è la scomparsa del mio posto, sussunto – se così si può dire – in uno schermo, una tastiera, una stampante a 3D o, più esattamente, in un programma di software. Il futuro immediato assomiglia, cioè, in grande, all’immediato passato: lo misuriamo ogni volta che andiamo a prendere contanti al bancomat, invece che allo sportello di una banca. La grande mattanza di posti di lavoro non è più in fabbrica: è in ufficio.
Che dimensioni può avere questo travaso di ruoli e competenze? In America e in Europa, i ricercatori – a Oxford come al Mit – suggeriscono grosse cifre. Nei prossimi 10-20 anni potrebbero sparire, inghiottiti dai computer o semplicemente dagli algoritmi, circa metà degli attuali posti di lavoro. Sembra una cifra esagerata? Eppure, in Occidente, fra il 2002 e il 2014, quindi ai primi passi della rivoluzione tecnologica, l’automazione ha già assorbito fra l’8 e il 10 per cento della fetta centrale di occupazione: i lavori di routine che richiedono competenze di medio livello. Si sono salvati quelli che svolgono una occupazione non standardizzabile, dove si devono affrontare problemi sempre nuovi o realtà che mutano di continuo, come le persone: manager, personal trainer, badanti. La discriminante non è il tasso di sofisticazione e di competenza del lavoro, ma la sua imprevedibilità da parte di un software. In teoria, insomma, un buon giardiniere è al riparo dall’automazione quanto l’architetto che ha deciso che, quel palazzo, doveva avere un giardino. Ma, in cifre, il tasso di imprevedibilità di un lavoro è legato alle competenze che richiede: il 40 per cento dei lavoratori che hanno in tasca solo il diploma di scuola media è ad alto rischio di automazione, mentre solo il 5 per cento dei laureati lo è.
Troppo pessimisti? C’è chi ritiene queste previsioni troppo negative. Prima la McKinsey, poi in questi giorni l’Ocse, hanno sottolineato che parlare di automazione di posti di lavoro è sbagliato. Bisogna parlare di automazione di singoli compiti, che possono non esaurire il ruolo di un particolare lavoratore. Uno studio specifico commissionato dall’Ocse calcola che, in realtà, solo il 9 per cento dei posti di lavoro, nella media dei paesi interessati, rischia di essere automatizzato, ovvero di avere almeno il 70 per cento dei compiti previsti sostituiti da un software. Si va dal 12 per cento per Austria, Germania e Spagna al 6 per cento di Finlandia ed Estonia. Dipende, ovviamente, dalla composizione dell’occupazione. L’Italia è nella fascia alta di rischio, con circa il 10 per cento dei lavori automatizzabili. Ma le quote schizzano verso l’alto (e l’Italia in testa) se si prendono in considerazione i posti di lavoro in cui l’inserimento dell’automazione comporta radicali cambiamenti nella prestazione lavorativa. Almeno un altro 35 per cento dei posti di lavoro, in Italia, secondo l’Ocse, dovrà attraversare questa sorta di rivoluzione, che può comportare una riqualificazione del lavoro (con l’affidamento alla macchina dei compiti quotidiani più ripetitivi), ma anche una dequalificazione (con il compito di fornire alla macchina gli input su cui poi deciderà).
Dobbiamo allora aspettarci una sommossa luddita contro software e macchinette in genere? All’epoca, i ludditi, nel breve termine, avevano ragione. I loro posti sono stati in effetti inghiottiti dalle macchine. Alla lunga, però, gli aumenti di produttività hanno generato un progresso di cui tutti hanno economicamente beneficiato. Quando i trattori hanno sostituito i braccianti, i braccianti sono andati a lavorare nelle fabbriche di trattori (e auto). Oggi, alcune stime indicano che, per ogni posto di lavoro creato nell’high-tech, se ne creano più o meno cinque nei settori attigui o collegati. Ma nessuno, attualmente, nelle università e nei centri di ricerca, se la sente di dire che, anche questa volta, l’automazione creerà più lavoro per tutti.