O Giorgetti sa qualcosa che noi non sappiamo, o la manovra appena varata dal governo è un clamoroso bluff o, peggio, un goffo tentativo di truffare i nostri partner europei, prendendoli per scemi. Oppure ancora, è il gioco scoperto di scaricare sull’Europa qualsiasi cosa possa accadere l’anno prossimo, che è anche un anno elettorale. Il quadro disegnato dal ministro del Tesoro per il 2024, come appare nella Nota di aggiornamento al Def, è, infatti, degno del paese di cuccagna e vi campeggia l’albero dei sogni.
Cominciamo dalla cuccagna, che è, forse, peraltro, il peccato meno grave della manovra. La decisione di aumentare il disavanzo statale da una cifra pari al 3,7 per cento del Pil al 4,3 per cento è tutt’altro che marginale. Uno 0.6 per cento in più equivale ad un aumento di un sesto rispetto al 3,7 per cento iniziale: ovvero oltre il 16 per cento, in pratica sfondare il recinto. Inevitabile per scongiurare una emergenza? La decisione di Eurostat di far gravare, contabilmente, il peso maggiore del Superbonus sugli anni 2021-2023 scarica il prossimo anno della zavorra più temuta. In realtà, l’extradeficit di Giorgetti serve, invece, a trovare lo spazio finanziario per pagare promesse elettorali che, altrimenti, resterebbero inevase. Una di queste promesse – il taglio del cuneo fiscale sulle buste paga – ottiene un plauso generale, compreso quello dei nostri partner europei. Il resto – fra condoni, sussidi e incentivi – molto meno.
C’è chi è pronto a discutere, in astratto, sull’utilità di qualsiasi tipo di extradeficit (e, dunque, di extrastimolo) per una economia a rischio stagnazione. Ma, in concreto, la discussione è irrilevante. In concreto, infatti, il bilancio italiano è stretto fra i paletti Ue e, ancor più (per chi è pronto a polemizzare con l’Europa) nella diffidenza dei mercati, dove lo spread è salito da 175 a 200 nel giro di una settimana. E un aumento dei tassi di interesse sul debito è in grado di mangiarsi tutto l’extradeficit e i supposti benefici connessi, azzerando qualsiasi velleità.
In più, non è un momento qualsiasi. A gennaio, scade la sospensione del Patto di stabilità e dei connessi parametri di Maastricht. Dunque, in linea di principio, torna l’obbligo di tenere il deficit entro il 3 per cento del Pil (altro che 4,3 per cento). Ma se anche passasse la linea più morbida di una riforma del Patto nelle prossime settimane, con la responsabilità di definire i parametri di bilancio trasferita ad una trattativa con la Commissione di Bruxelles le cose non andrebbero molto meglio: difficile che Ursula von der Leyen e soci, appena superato il fuoco di sbarramento di Berlino sulla riforma, accettino uno sfondamento dei parametri italiani che sa quasi di provocazione. Anche perché significherebbe rinnegare quello che la Commissione ha appena detto in documenti ufficiali.
Eccoci, infatti, all’albero dei sogni. E’ possibile che Giorgetti abbia in mano delle carte che garantiscono uno sviluppo dell’economia italiana dell’1,2 per cento il prossimo anno. Quali, però, non si sa. L’attuale crisi italiana non è solo colpa dell’attuale governo, anche se i passaggi a vuoto sul Pnrr stanno impallando quello che viene giudicato il più promettente motore di sviluppo. Ma indicare per il prossimo anno una espansione dell’economia dell’1,2 per cento pare, soprattutto, un atto di fede. Giorgetti, al momento, è l’unico a pensarlo. Anche l’Istat (1,1 per cento) è più prudente. Soprattutto, è molto meno ottimista l’interlocutore più importante del ministro del Tesoro: la Commissione di Bruxelles. Solo due settimane fa (l’11 settembre) la stessa Commissione ha cifrato allo 0,8 per cento lo sviluppo dell’economia italiana nel prossimo anno. Un terzo in meno di quanto dice Giorgetti. Per dare via libera alla manovra italiana, la Commissione dovrebbe non solo sfidare Berlino, ma, anzitutto, smentire se stessa.
Il punto è che prevedere un Pil più basso scombussola anche le previsioni sul deficit. Se dico che il disavanzo sarà di 100 miliardi, rispetto ad un Pil salito, nel frattempo, a 1000 miliardi, ottengo un rapporto deficit/pil del 10 per cento. Se, però, il deficit è sempre di 100 miliardi, ma il Pil, nel frattempo, si è fermato a 500, il rapporto deficit/pil è del 20 per cento. Le cifre in ballo, qui, sono naturalmente diverse. Ma se dico che il disavanzo pubblico sarà di una cifra corrispondente al 4,3 per cento del Pil, cresciuto, a sua volta, dell’1,2 per cento, rispetto all’anno precedente e, invece, il Pil è più piccolo del previsto, perché è cresciuto solo dello 0,8 per cento (cioè un terzo in meno), il 4,3 per cento non regge più. Confrontato con un Pil più piccolo, l’entità del disavanzo non sarà più il 4,3, ma magari il 4,5 per cento o, comunque superiore a quanto dichiarato in partenza.
Se è un bluff, non porta lontano. Se è un modo per aprire la guerra con l’Europa, sperando di lucrare sullo scontro alle prossime elezioni europee di giugno, è un disastro.
Maurizio Ricci