Un grido d’allarme e, assieme, alcune idee per superare l’acuta situazione di crisi denunciata col grido d’allarme. Può forse essere riassunto così il significato di quanto è stato detto oggi, in Confindustria, a proposito del settore degli elettrodomestici, un tempo uno dei più vitali e, comunque, ancora uno dei principali nell’industria del nostro paese.
Prendendo a riferimento il 2007, l’ultimo anno prima dell’esplosione della crisi globale, e confrontandolo con il 2013, si vede che i volumi produttivi sono diminuiti del 40%, mentre, rispetto al picco di oltre 30 milioni di pezzi prodotti nel 2002, afine 2013 risultano più che dimezzati.
Questi dati, presentati da Franco Secchi, Presidente di Ceced Italia – l’associazione dei produttori del settore – ci spingono subito a fare due considerazioni. La prima: che la crisi, in questo come in altri settori dell’industria italiana, non è cominciata nel 2008 ma ben prima, e cioè in apertura del decennio, come evidenziato dal famoso dibattito sul declino che risale, appunto, ai primi anni 2000. La seconda: che, quanto a numero di pezzi prodotti – si tratti di semplici elettrodomestici, o dei grandi refrigeratori e dei grandi piani cottura usati da alberghi e ristoranti, o delle grandi lavatrici di uso professionale – più che a una crisi siamo di fronte a un vero e proprio crollo.
Un crollo che non ha forse ancora dispiegato tutta la sua potenza distruttiva in campo occupazionale, dove gli addetti in 6 anni sono scesi da 130mila a 100mila, e che, secondo quanto sostenuto da Ceced, è stato relativamente contenuto per quanto riguarda il decremento del valore prodotto. Valore che, ancora fra il 2007 e il 2013, sarebbe sceso del 30% “grazie agli investimenti, interamente autofinanziati”, in prodotti di sempre maggiore efficienza e minore impatto ambientale. Investimenti in innovazione che, secondo quanto specificato da Manuela Soffientini, vice-presidente di Ceced, negli ultimi 5 anni ammontano a 4 miliardi di euro.
Questi dati sono stati snocciolati nel corso di una conferenza stampa svoltasi a Roma, nella sede di Confindustria. Scopo dell’appuntamento era quello di presentare Progetto Orizzonte, cioè un insieme di analisi e di proposte elaborate dal sistema confindustriale per il rilancio del settore degli “apparecchi domestici e professionali”.
In apertura dell’incontro, il presidente degli imprenditori Giorgio Squinzi ha tenuto a sottolineare che quello di oggi era un esempio del modo di agire di Confindustria da lui preconizzato, tenendo assieme associazioni di settore e territori interessati sotto l’ala della confederazione nell’ambito di progetti specifici.
In questo caso si tratta dei lineamenti di una politica industriale settoriale che, per essere realizzata, ha ovviamente bisogno della fattivo impegno del Governo. Ma, a questo proposito, niente equivoci. Secchi, in particolare, ha affermato che le imprese non chiedono incentivi al consumo a breve, che finiscono per drogare il mercato, obbligando produttori e distributori prima a lavorare con costi aggiuntivi per un periodo non significativo, e poi a dover fronteggiare prevedibili cadute. Gli incentivi tradizionali, insomma, non migliorano le prospettive della domanda interna, ma la eccitano in modo effimero, concentrando in un tempo breve quelle quantità che si sarebbero comunque manifestate, anche se distribuite su un periodo più lungo.
Quel che serve è un impegno più complesso e prolungato che favorisca la realizzazione di quanto immaginato dalle imprese come imperativi autoassegnati per superare la crisi. Da questo punto di vista, come già noto ai sindacati dei metalmeccanici impegnati in difficile vertenze prima alla Merloni e poi alla Electrolux, il concetto chiave è Alto di gamma. Abbandonando l’ipotesi che nei subsettori a minor valore aggiunto l’Italia possa sostenere la concorrenza spietata dei cosiddetti LCC, ovvero Low Cost Countries, cioè dei Paesi a basso costo, le imprese associate in Ceced pensano che sia necessario concentrarsi sulle produzioni di maggiore qualità.
Ecco quindi le idee-forza del progetto, raggruppabili in 3 aree: innovazione di prodotto, innovazione di processo e modello di business. Per quanto riguarda la prima area, Soffientini ha richiamato quattro esigenze. Primo, rispondere ai nuovi bisogni dei consumatori, sapendo che una porzione crescente della domanda è già, e ancor più sarà, costituita da anziani. Secondo, realizzare prodotti maggiormente ecocompatibili, ovvero, da un lato, capaci di consumare meno energia e, dall’altro, progettati in modo tale da facilitarne il riciclo a fine vita. Terzo, realizzare prodotti pensati per rendere possibili la loro interconnettibilità, integrandoli in reti funzionanti a livello di unità abitativa e/o di città (e qui si comincia a parlare di Smart City). Tanto per capirci, produrre elettrodomestici che possano essere comandati a distanza grazie a uno smart phone. A tutto ciò si aggiunge la necessità di difendere e incrementare il valore aggiunto che può essere trasmesso a un prodotto che inglobi l’eccellenza del design italiano e richiami il fascino del cosiddetto Italian Lifestyle (insomma, il famoso stile di vita italiano).
Innovazione di processo: qui si tratta di inserire l’innovazione del modo di produrre entro la cornice di quanto previsto dall’Unione europea sotto la dizione KET, ovvero Key Enabling Technologies. Con una cattiva traduzione italiana, le cosiddette tecnologie digitali abilitanti, previste dal programma europeo Horizon 2020. Puntando ad usare, tanto per fare un esempio, le stampanti in 3D per realizzare prototipi, con risparmi di tempi e, quindi, di costi.
Infine, il modello di business. Dove, seguendo l’esempio di altri settori, si immagina di poter puntare a vendere un prodotto dotato di servizi.
Come si vede, molte belle idee. Ma, passando dall’esposizione di analisi e ragionamenti al messaggio politico della mattinata, Ceced e Confindustria hanno insistito sull’esigenza di avere un tavolo permanente sul settore al ministero dello Sviluppo economico. Ciò che le imprese chiedono al Governo, infatti, non è, come si è visto, un qualche provvedimento estemporaneo volto a incrementare a breve la domanda interna, ma un’azione, starei per dire, concertata, di lungo periodo e capace di agire a vari livelli. Per via fiscale, si tratta, come sottolineato da Squinzi, di ridurre il famoso Clup, cioè il costo del lavoro per unità di prodotto. Si tratta inoltre di sostenere, anche in vario modo, la ricerca. E anche di favorire ciò che viene prodotto in Italia. Per non citare la necessità di diminuire i costi energetici.
Un commento finale? La Confindustria ha certamente ragioni da vendere quando pone in luce che una politica industriale settoriale è un’azione complessa che richiede la cooperazione di diversi soggetti fra cui, in prima fila, imprese e Governo. Ed è quindi ammirevole l’apparente ingenuità con cui insiste sulla necessità di avere al Mise un tavolo permanente di settore. Solo che questa idea è, come dire, molto sindacale e assai poco renziana. Chissà che il Ministro Guidi non offra a Confindustria una sponda più accogliente di quelle promesse dal Presidente del Consiglio a tutte le parti sociali.
Fernando Liuzzi



























