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Home - Approfondimenti - La nota - Introduzione di Lotito al convegno “Dopo Mirafiori: impresa, lavoro e unità sindacale”

Introduzione di Lotito al convegno “Dopo Mirafiori: impresa, lavoro e unità sindacale”

23 Febbraio 2011
in La nota

DOPO MIRAFIORI: IMPRESA, LAVORO E UNIITÀ SIINDACALE

INTRODUZIONE DI FRANCO LOTITO
Presidente Consiglio di Indirizzo e Vigilanza Inail

Nella veste di Presidente del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inail ho
il piacere di recare il saluto del Consiglio e dell’Istituto ai lavori di questo
Convegno che molto volentieri abbiamo ospitato. Questo richiede il “bon ton”
istituzionale.
Vi sono poi le logiche del marketing politico, le quali vorrebbero che ora
io utilizzassi l’occasione di interloquire con un panel così prestigioso per
richiamare la vostra attenzione sui temi della salute e della sicurezza.
Magari vi parlerei dello scioglimento dell’ISPESL e dell’IPSEMA e
dell’obiettivo della costruzione del Polo Salute e Sicurezza. Mi sforzerei di
segnalarvene la centralità, stimolando la vostra sensibilità politica sullo
sconcertante ritardo che il governo “del fare” sta accumulando nel varo dei
decreti attuativi. E naturalmente vi intratterrei intorno ai guai gestionali che
l’Istituto è costretto a sopportare per via di questo ritardo.
Vi parlerei di tutto questo e sono certo che voi ne dareste pronto
riscontro manifestando la compunta e cortese attenzione che la circostanza
richiede.
Non sarà così. Perché in cambio della ospitalità logistica, io chiedo a voi
ospitalità politica nel vostro dibattito.

E’ vero che da un po’ di anni a questa parte faccio l'”inviato” del
sindacato nella Pubblica Amministrazione, ma ho vissuto troppo da vicino e per
troppi anni la vicenda storica dei metalmeccanici per sentirmi semplice
spettatore di un dibattito sulla Fiat e sulla divisione del movimento sindacale
che lì si è consumata.

LA FIAT
Ho letto anch’io il testo dell’audizione fornita da Sergio Marchionne
davanti alle Commissioni della Camera dei Deputati. Dico subito che è difficile
negare razionalità strategica al disegno.
Per questo sono convinto che chi avrà a che fare con la Fiat per motivi
sindacali e politici, dovrà partire dalla realtà concreta delle cose, e cioè che
ormai la Fiat è – a tutti gli effetti – una multinazionale in cerca di una nuova
patria.
Chiaramente e senza reticenze Maarchionne ha detto tre cose. La prima
è che non è vero che la Fiat ha salvato la Chrysler. E’ vero invece che si sono
salvate a vicenda – grazie pero’ ai soldi di Obama, del Fondo pensioni della
UAW e dei canadesi; con ciò chiarendo che senza quell’accordo la Fiat sarebbe
andata definitivamente a picco.
La seconda è che la sede legale sarà collocata laddove sarà possibile
“l’accesso ai mercati finanziari indispensabili per gestire un business che
richiede grandi investimenti ed ingenti capitali”. La testa non va dove la porta
il cuore. A me pare chiaro che Marchionne stia dicendo: Detroit Stati Uniti.

Ho conosciuto la Fiat di altri tempi e di ben altre stagioni sindacali, e mi
addolora l’idea che il più grande gruppo manifatturiero privato del nostro Paese
decida di andare a vivere altrove. Ma questa è la realtà.
La terza cosa è che i contenuti del Piano Fabbrica Italia, cioè il modo in
cui la Fiat intende impiegare i 20 miliardi di cui parla, continuano a rimanere
gelosamente chiusi nel suo cassetto. Un cassetto che si aprirà – questo dice
chiaramente Marchionne – “se” e “quando” si saranno determinate condizioni
favorevoli. Ed è qui che si pone la necessità di una riflessione profonda
sull’esperienza contrattuale vissuta alla Fiat.
Si poteva evitare la rottura? Si doveva evitare! L’unità contrattuale era
l’unica via per reggere il confronto con il livello della sfida che Fiat metteva in
campo.
Non si lascia il tavolo del negoziato quando sono in gioco le sorti di
decine di migliaia di posti di lavoro. E quando si sta al tavolo dove c’è in ballo
una posta di questa portata non si lascia nelle mani della controparte tutta
l’iniziativa per determinare il terreno del confronto; i contenuti, i tempi e le
forme. Certo c’è da dire che la partita che si stava giocando chiamava in causa
grandi questioni strategiche sollecitando al massimo grado la responsabilità
della politica, dell’economia e del sindacato.
Invece il governo “del fare” ha fatto spallucce e si è girato dall’altra
parte,(ricordo ancora la chiosa vergognosa con la quale il Presidente del
Consiglio commentò la possibilità che la Fiat spostasse la produzione fuori
dall’Italia) la Confindustria si è preoccupata delle quote associative che Le
venivano a mancare con la defezione delle c.d. “newco”ed il sindacato si è
acconciato a fare la parte dei polli di Renzo. Tutto ciò ha consentito a
Marchionne di tenere saldamente in pugno l’iniziativa e di imporre la razionalità
della sua strategia, che era l’unica in campo.

IL SINDACATO
Già, il sindacato! Altre volte nella sua storia il sindacalismo confederale
ha conosciuto fasi di divisione; anche acuta e lacerante. Mai però segnata così
pesantemente dal pregiudizio negativo ed anti-unitario che trasforma il
compagno di cammino in concorrente, il concorrente in avversario; l’avversario
nel nemico da abbattere. Eppure non ci vuole molto per vedere che nella realtà
concreta le cose stanno ben diversamente. Questa divisione così dura, ed
ostentata, non è voluta dalla stragrande maggioranza dei lavoratori. Non la
volevano gli operai della Fiat smarriti davanti ai cancelli di Mirafiori mentre
infuriava la battaglia referendaria. Non la volevano i lavoratori del Pubblico
Impiego, dove è bastata una risibile paginetta scritta da uno scaltro “goboldo”
per provocare uno stato di rottura del tutto posticcio . E non la vogliono i
milioni di lavoratori che continuano a sostenere la via della contrattazione e
degli accordi unitari.
Ed allora – c’è da chiedersi – perché il sindacalismo confederale sembra
abbandonarsi perdutamente a quella che appare come una vera e propria
“Hybris” della divisione e dello scontro?
La risposta non è da affidare alla mozione degli affetti.

La risposta – a mio avviso – è da ricercare nella perdita di autonomia
culturale del sindacato di fronte alla politica. Un simile approccio richiederebbe
naturalmente una adeguata argomentazione, incompatibile con il tempo a
disposizione. Allora provo a dirla così.
C’era una volta la logica della “cinghia di trasmissione” che calettava
l’azione del sindacato a quella del partito, dichiarando la subalternità culturale
ed ideologica del primo rispetto al secondo.
Ora un sistema bipolare reso degenerato da una legge elettorale
indecente si adopera per applicare al sindacato lo stesso principio di
subalternità.
Solo che ora la funzione motrice non viene svolta dal “Partito”, bensì
dallo schieramento politico. Si vuole così prospettare una sorta di equazione
socio-politica per la quale a schieramento di governo deve corrispondere un
“sindacato di governo” e a schieramento di opposizione debba corrispondere
un “sindacato di opposizione”.
C’è che lavora attivamente alla maturazione di una siffatta
semplificazione. Ed è evidente che per costoro il pluralismo sindacale non ha
piu’ senso; bastano due sindacati. Due forze perennemente contrapposte e
comunque caudatarie del sistema politico.
C’è invece chi ritiene che un simile disegno vada decisamente e
duramente contrastato. Perché se l’unità non è possibile, e fino a quando non
sarà possibile il pluralismo sindacale è un bene indispensabile. Perché è in
gioco la storia del movimento sindacale che non deve ossificare il presente ma
che deve proteggere dalle derive d’avventura. E poi perché è in gioco la sua
autonomia, la sua indipendenza, la sua rappresentanza di fronte ai lavoratori,
la sua dignità.
Cgil, Cisl, Uil hanno il dovere dell’unità, la richiedono i lavoratori. Ma
soprattutto c’è un Paese che ha un disperato bisogno di un vero grande
progetto di modernizzazione democratica che metta al centro i temi del lavoro,
dell’economia reale, della crescita sostenibile, della giustizia fiscale e della
buona occupazione.
Occorre un nuovo Patto Sociale che chiami in campo le forze sindacali, il
mondo della produzione, ma anche .- ed è questa la novità – le categorie
sociali ed economiche che ancora non dispongono di solide forme di
rappresentanza e che pur tuttavia pagano il prezzo più alto della incertezza e
della precarietà. Parlo delle nuove professioni, delle partite IVA, del lavoro
autonomo, delle forme contrattuali discontinue, della miriade di micro-imprese
che combattono giorno per giorno la battaglia della sopravvivenza e dalle quali
tuttavia dipende una grande fetta del P.I.L.
Un patto sociale che dia il segno di una svolta necessaria e che
restituisca fiducia al Paese: questo, certamente, è ciò che serve. Ed è quello
che, a mio modestissimo avviso, si deve fare.
A questo punto, rientro nella mia veste istituzionale, prendo congedo da
voi e vi auguro buon lavoro.

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