Invecchiare conviene. Più esattamente, conviene essere anziani. Almeno, se il parametro che ci interessa è il reddito. E se guardiamo il reddito non come una fotografia, ma come un video, dove scorre il rapporto tra età e busta paga. Può infatti sembrare normale che, in età matura, ci sia maggiore capacità di risparmio: le grandi spese sono alle spalle, la retribuzione a fine carriera è naturalmente più alta. Ma questa è la fotografia. Guardiamo il video: non è scontato che la retribuzione di un lavoratore che va verso la pensione aumenti di più e più in fretta di un giovane all’inizio dell’età lavorativa. Dovrebbe essere il contrario: la busta paga di un giovane, che parte da un basso livello iniziale, dovrebbe aumentare percentualmente di più di quella del suo capo, che parte da un livello più alto. Perché quella del capo cresca percentualmente di più, occorre che il suo aumento, in cifra assoluta, sia notevolmente più consistente. O quello del giovane, notevolmente inferiore.
Ed è esattamente quello che avviene. Un lungo rapporto dell’Ocse – l’organizzazione che raccogli i paesi industrializzati – sull’invecchiamento registra che, negli ultimi 30 anni, fra il 1980 e il 2010, la fascia dei lavoratori che, via via, scavalcava i 60 anni metteva insieme, prima di arrivare alla pensione, un aumento cumulativo del reddito del 13 per cento superiore a quello che raggranellavano i lavoratori di 30 anni più giovani. Quel 13 per cento è una media. In Italia, lo scarto sistematico a favore dei più anziani arriva al 20 per cento. In Francia al 23 per cento. E’ un rovesciamento dell’esperienza storica di gran parte del ‘900.
Il 1980 non è, infatti, un anno scelto a caso. E’ una sorta di spartiacque che segna l’inizio del declinare della presa del mondo del lavoro sulla ricchezza della società. E’ da quel momento, che coincide con l’avvio della rivoluzione neoliberale dell’era Reagan-Thatcher, che i lavoratori hanno cominciato a perdere terreno. Fra il 1910 e il 1980, ogni lavoratore ha sempre guadagnato di più rispetto a quanto guadagnava, alla sua età, un lavoratore di cinque, dieci anni più vecchio. In media, 1,3 per cento in più, al netto dell’inflazione, per ogni anno di differenza nella data di nascita. Il risultato finale è che nel 1980, un lavoratore guadagnava, senza contare l’inflazione, in termini di capacità reale di spesa, 2 volte e mezza lo stipendio di suo nonno, 70 anni prima, alla stessa età.
Questa crescita continua si è interrotta nel 1980. I grafici dell’Ocse mostrano una linea che si appattisce e si incrocia con le altre, invece di viaggiare più in alto. Un millennial, nato dopo il 1980, ha a 30 anni lo stesso stipendio di suo fratello, nato 10 anni prima, invece di trovarsi in busta paga il 13 per cento in più, come accadeva, in media, prima del 1980. E la linea si è appiattita per tutti. Questo secondo fratello, a sua volta, a 40 anni, trova in busta paga la stessa cifra di un terzo fratello che, di anni, ne ha 50. Ognuno dei tre fratelli ha avuto una busta paga iniziale più alta del fratello più vecchio, ma ha avuto meno incrementi di stipendio.
Si spiega così l’allargarsi della forbice di reddito fra i trentenni e i sessantenni, capaci di aumentarsi la busta paga più in fretta. Ed è un problema destinato ad aggravarsi, man mano che i più vecchi vanno in pensione e i giovani di oggi, invece, non ci arrivano. L’Ocse ha provato a mettere a confronto gli effetti di due percorsi lavorativi differenti. Il primo vede l’ingresso nel mondo del lavoro a 20 anni e prosegue, accumulando contributi senza interruzione, fino al raggiungimento dell’età di pensione. Il secondo, in cui l’assunzione in un posto di lavoro arriva non a 20, ma cinque anni più tardi e che, prima dell’età della pensione, sconta dieci anni complessivi di disoccupazione.
Non sono due percorsi astratti. Il primo era quello standard fino agli anni ’80, oggi sempre più raro. Il secondo, con la lunga caccia ad un posto sfuggente e poi lunghe pause di precariato e lavoro nero è quello più comune per i giovani di oggi e neanche dei più sfortunati. Che differenza c’è per la pensione? Nella media dell’Ocse, il precario ricorrente arriverà a prendere una pensione del 20 per cento inferiore a chi ha goduto di un posto fisso. Ma la media nasconde forti differenze fra le diverse legislazioni pensionistiche. In Italia, lo scarto fra i Checco Zalone ancorati alla loro scrivania e gli acrobati in perenne vagare fra co.co.co, partita Iva, part time, tempo determinato e tempo indeterminato arriva al 30 per cento.
Maurizio Ricci