Uno dice concorrenza e pensa ai giganti del big tech, come Apple o Google, o agli scontri fra catene di supermercati, tipo Coop e Esselunga, o al duello Airbus-Boeing. Niente di tutto questo, invece. La patata bollente di una riforma della concorrenza in Italia – che la Ue reclama a gran voce da tempo, inserendola fra i passaggi pregiudiziali del Pnrr, e che il governo Draghi continua, al contrario, a far saltare fra le mani, guardandosi bene dal pelarla e metterla in tavola, nonostante gli impegni ufficiali e le promesse – non riguarda affatto giganti e, in prima battuta, neanche i privati. L’obiettivo, piuttosto, è instillare goccia a goccia la concorrenza che può dare un mercato aperto nel sistema pubblico e nei suoi rapporti con una miriade di piccoli interessi locali. Piccoli, ma elettoralmente potenti a quel livello locale. Ecco perché la riforma della concorrenza non è una bomba economica, ma è una bomba politica e più che di ostacoli, bisogna parlare di campo minato. Mettere mano nella giungla, infatti, sconquassa consolidati schieramenti elettorali nei Comuni e nelle Regioni. E, così, alimenta inattese sintonie nell’ombra fra formazioni politiche agli antipodi nella maggioranza Draghi, ma che rappresentano ambedue, nel paese, il partito degli amministratori: Lega e Pd. Risultato? Prevista entro luglio, la riforma slitta di settimana in settimana sempre più in là dentro l’autunno: difficile veda la luce prima che siano stati digeriti anche i ballottaggi delle prossime, incerte, elezioni amministrative. E, in ogni caso, la riforma, giurano gli addetti ai lavori, sarà appesantita da deleghe al governo che consentiranno di diluirne e smaltirne gli effetti.
A delineare i contorni della questione basta citare il primo capitolo della riforma, autentico emblema dell’inestricabile viluppo fra potere pubblico e interesse privato che, da decenni, torna periodicamente a zavorrare le velleità della politica: le spiagge. Ovvero le concessioni agli stabilimenti balneari. Possono essere – e molto spesso sono – fonte di ingenti profitti, privilegi ed abusi. Le imprese hanno dimensioni limitate, ma, nelle singole realtà locali, la loro rete rappresenta una presenza economica di primissimo rilievo, che molto pesa nei conti politici del Pd sulla costa romagnola, della destra in Veneto e in Liguria. Il senso della concessione è che sia contendibile, non una forma mascherata di proprietà. Ma, come per le autostrade, in Italia le concessioni tendono ad essere eterne. Di fronte all’offensiva dell’Europa, che pretende il ritorno di questi beni pubblici sul mercato e una nuova gara per le concessioni, il governo gialloverde Lega-5Stelle, nel 2019, decise una ennesima proroga di 15 anni di quelle in vigore.
Inevitabile che Bruxelles tornasse alla carica, con una nuova procedura d’infrazione. È difficile, per Draghi, dire No alla Ue, ma anche scavalcare la renitente opposizione dei maggiori partiti del suo governo. La svolta potrebbe venire il 20 ottobre, quando (a ballottaggi elettorali consumati) il Consiglio di Stato sarà chiamato a pronunciarsi sulla proroga decisa dal Conte1. Gli addetti ai lavori escludono in ogni caso decisioni a tamburo battente: una delega al governo per le decisioni effettivamente operative consentirebbe di navigare prevedibili resistenze.
Come una delega sarà probabilmente lo strumento per mettere mano all’altro aspetto dei mercati locali che, da tempo, suscita l’irritazione di Bruxelles. È in nome della direttiva Bolkenstein (il nome del commissario europeo che gestì la partita), infatti, che le concessioni degli spazi nei mercati alle bancarelle degli ambulanti dovrebbero essere rimesse a gara. Qui, il governo Lega-5Stelle agì anche più drasticamente che per le spiagge, negando a Bruxelles che la direttiva potesse applicarsi agli ambulanti. Posizione difficile da tenere, oggi, e Draghi potrebbe cavarsela con qualche sistema che ammortizzi, almeno per un po’, l’impatto sugli ambulanti di più lunga carriera.
Dove, invece, la riforma della concorrenza tocca direttamente, più che gli elettori, interessi e consuetudini delle classi politiche locali è nella gestione dei servizi pubblici (trasporti, acqua, asili nido). Il 93 per cento di questi servizi, dicono i dati, è stato appaltato dai Comuni ad aziende comunali, ovvero a sé stessi, senza passare attraverso una regolare gara d’appalto. Una deregulation smantellerebbe pezzi importanti di potere locale, in particolare i monopoli sul recupero e lo smaltimento dei rifiuti ai quali la bozza di riforma dedica un capitolo specifico, precisando che una gara d’appalto aperta anche ad altre aziende, oltre a quelle di casa, è obbligatoria, tutte le volte che esiste un possibile mercato, ovvero potenziali concorrenti. Scelte delicate su un tema rovente come i rifiuti, tanto che qui, alla renitenza dei partiti si aggiungono anche dubbi tecnici: il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, avrebbe delle riserve sugli effetti di questa deregulation sulla operatività dei servizi. I tecnici riappaiono, ancora, a sorpresa, come frenatori, sulla questione tram e autobus: il ministro alle Infrastrutture, Giovannini, sarebbe convinto che i tempi non siano maturi per aprire del tutto ai privati il monopolio dei trasporti cittadini.
Porti e dighe sono gli altri ostacoli sulla via del progetto di riforma. Nel caso dell’idroelettrico si tratta, ancora una volta, di ripercorrere al contrario la via intrapresa dal governo gialloverde nel 2019. Soprattutto per spinta della Lega (che governa le regioni del Nord più direttamente interessate) la gestione delle dighe è stata trasferita alle Regioni. L’Antitrust non è d’accordo e preme per un ritorno alla competenza statale: la Lega, da quest’orecchio non ci sente. Nel caso dei porti, invece, l’opposizione viene dai sindacati: la riforma consentirebbe agli armatori di gestire in autonomia, se lo ritengono conveniente, le operazioni di carico e scarico delle navi, colpendo un monopolio di lavoro (ma anche un tesoro di competenze) per ora riservato alle compagnie dei portuali.
Maurizio Ricci