Recentemente è stato Mario Draghi a tessere le bontà delle relazioni industriali. Dicendo, all’assemblea di Confindustria di fine settembre, che possono essere la molla della ripresa e chiedendosi anzi, stupito, perché non abbiano la centralità che meritano. Noi non avevamo bisogno dell’indicazione del nostro premier per accorgerci della bontà del dialogo tra le parti sociali, del bene che la contrattazione, mettendo in risalto l’esistenza di un conflitto e superandolo, può fare all’economia. Lo abbiamo sempre saputo ed è la prima cosa che diciamo agli alunni della nostra Scuola di relazioni industriali quando avviamo i corsi: il loro mestiere è centrale nella vita delle imprese. E mai come in questo momento ci appare nitida la prospettiva delle relazioni industriali, quasi che le profonde trasformazioni che stanno attraversando l’economia e la società concorrano tutte assieme per rilanciare il dialogo tra le parti sociali.
Basta pensare a quanto sta accadendo o accadrà nel futuro prossimo venturo nel mondo della produzione. È evidente che la pandemia ha posto fine a 30 anni di globalizzazione. L’estrema lunghezza delle catene del valore ha mostrato tutta la sua fragilità a fronte delle difficoltà a spostare merci e persone a causa delle restrizioni da Covid. Parallelamente alla riconsiderazione dell’utilità delle delocalizzazioni, che ha causato un forte movimento di reshoring, le aziende, anche quelle maggiormente inserite in quelle grandi catene, hanno saggiato con mano le difficoltà a mantenere i precedenti rapporti con i mercati di fornitura. Ed è partita così una nuova, diversa geografia delle forniture con grandi diversificazioni rispetto al passato recente. Le economie di scala sono tornate centrali proprio per sostituire i benefici, magri, della delocalizzazione. Insomma, sta partendo una nuova mappatura del mondo della produzione. Un processo di vastissime dimensioni che non potrà non causare grandi problemi alle aziende, acuiti del resto dalla difficoltà crescente di reperimento dei materiali e dalla crescita del prezzo dell’energia.
Le aziende si troveranno a dover affrontare questi nuovi problemi e riusciranno nell’impresa se potranno contare su un sistema collaudato di buone relazioni industriali. Nel corso della pandemia il dialogo tra le parti sociali, proprio per la vastità dei problemi che la malattia causava, poteva essere pesantemente condizionato. Le imprese erano di fronte a problemi molto forti e del tutto nuovi e potevano scegliere di risolverli da sole, senza aiuti esterni che avrebbero potuto innescare altre difficoltà. Non è stato così: in questi venti mesi di lockdown a singhiozzo, proprio il dialogo tra le parti sociali ha mostrato tutta la sua validità. Nel pieno dell’epidemia, ad aprile 2020, l’accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ha consentito di tenere aperte le fabbriche in un massimo di sicurezza dei lavoratori. Un risultato di grande levatura, che nessuno avrebbe potuto garantire a priori e che ha determinato gli splendidi risultati macroeconomici che abbiamo potuto raggiungere. E in tutte le aziende sono fioriti i mille accordi, sempre con la parte sindacale, per gestire la produzione, regolare lo smart working, risolvere tutti i grandi e piccoli problemi che nascevano in quei mesi difficili.
Adesso che, forse, solo forse, i problemi sono diversi, che quanto meno il sistema della produzione ha trovato un suo assetto più stabile per quanto si riferisce alla pandemia, è necessario rivolgere l’attenzione a quelle trasformazioni profonde rese necessarie dalla fine dell’ondata di globalizzazione. E le imprese farebbero un grave errore se chiudessero il dialogo con i lavoratori e i loro rappresentanti e li escludessero dalla soluzione di quei grandi nodi economici. I sindacati hanno mostrato di avere la duttilità per affrontare, positivamente, i grandi temi che affliggevano il mondo della produzione, non sarebbero da meno in questa nuova tornata di dialogo. Si tratta di impostare nella maniera giusta il confronto. Certo, sarebbe stato opportuno un dialogo a tutto tondo, la ricerca di quel patto sociale, magari triangolare, sulla struttura produttiva ed economica del paese, ma non è stato possibile realizzarlo.
Forse però sarà necessario dare a questa nuova tornata di confronto una marcatura diversa, con un grado di partecipazione più forte di quanto non sia stato in passato. Gli industriali, specie quelli medio piccoli, si sa, non amano la partecipazione, la vedono come un’intrusione, una sottrazione di potere nei loro confronti. Ma non è una situazione statica, al contrario. Il Patto della fabbrica, firmato appena tre anni fa, dava proprio per la partecipazione delle indicazioni di prospettiva molto incoraggianti. Frasi importanti sono state scritte in quell’accordo, che non sono state poi sviluppate, sono rimaste lettera morta; anche perché la pandemia ha costretto ad abbassare lo sguardo per affrontare la massa di problemi che la malattia imponeva. Adesso che, sempre forse, ne stiamo uscendo, è certamente il caso di riprendere quel discorso, interrogarsi sulla possibilità di aprire una nuova stagione. Proprio la vastità dei temi che il mondo produttivo dovrà affrontare spinge prepotentemente per un cambiamento che può risultare vincente. Quanto meno vale la pena provare a vedere fin dove sia possibile spingersi.
Massimo Mascini