Chiedo scusa al lettore della schematizzazione usata in queste note. Ma la materia è complessa, semplificarla è un buon modo per intuire quel che è urgente fare. Almeno secondo me.
- Il problema principale del Paese (anche rispetto ad altri Paesi europei) è la stagnazione economica. La produttività e l’efficienza del sistema non crescono, non crescono le retribuzioni, cala il potere d’acquisto (anche con inflazione stabile), cresce un lavoro povero (di salari e di diritti), aumenta la povertà, i giovani italiani (le giovani competenze) emigrano, l’ascensore sociale è fermo, si allargano le diseguaglianze sociali, economiche, territoriali.
- La stagnazione economica è la pandemia che da 30 anni (aggravatasi dopo la crisi del 2008) impedisce all’Italia di essere competitiva rispetto alle sfide e alle transizioni digitale ed ecologica esistenti sui mercati europei e globali. Ovviamente, come tutte le pandemie, c’è chi è più colpito e chi meno. Il problema come sempre è non sbagliare la diagnosi, le terapie ed eventualmente i vaccini.
- In questo ambito, mi fa specie dire, che i Governi che si sono succeduti (di centro sinistra, tecnici e di destra), non hanno brillato né per diagnosi né per terapie. Tutti prigionieri dell’ideologia liberista secondo cui più il mercato è privo di regole (più lo Stato se ne tiene fuori) e più riuscirà da solo a ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche. Forse la sinistra non teorizzava il liberismo come il farmaco risolutorio teorizzato dalla “Scuola di Chicago”, ma le non politiche adottate andavano in quella direzione. E anche la “Terza via” (tuttora incomprensibile) di Tony Blair. Ciò ha prodotto: aiuti indiscriminati alle imprese, una politica fiscale sempre meno progressiva, una privatizzazione strisciante del Welfare per ridurre l’impiego di fondi pubblici (dati i vincoli europei sui bilanci), nessuna politica industriale di settore, nessuna politica attiva per un lavoro dignitoso.
- Anche l’ultima “finanziaria” del Governo Meloni, guarda più a spendere poco che a spendere bene per la crescita del Paese. E mira a sgravare dalle tasse non la popolazione più povera e i pensionati ma, per affermazione esplicita, i “ceti medi”. Si polemizza con le richieste dell’opposizione di sinistra su un fisco più progressivo ma nemmeno si dichiara di voler recuperare l’evasione: anch’essa morbo cronico del bel Paese, tanto diffusa da essere considerata ormai fisiologica e non patologica.
- Che fare di fronte al riprodursi continuo di questa sfasatura tra sintomi sempre più acuti e terapie sempre più blande? E chi può fare cosa? Semplificando, ci sono due possibili percorsi da seguire, teoricamente non alternativi fra loro: le politiche economiche macro che, assunte a Roma, si diffondono nel Paese attivando reazioni positive di crescita economica e benessere sociale nei territori, oppure le politiche economiche e del lavoro che partono dai territori, agendo sulle risorse che ci sono e avendo come obiettivo esplicito la crescita della produttività, dell’efficienza, del lavoro, delle retribuzioni e quindi del benessere sociale. In due parole: centralismo e sussidiarietà.
- Nel primo caso i soggetti attuatori delle politiche macro sono principalmente i partiti di Governo e quelli di opposizione che, dialetticamente, si misurano in Parlamento e nelle tornate elettorali per scegliere le terapie più efficaci. Nel secondo caso, le politiche micro, i soggetti “predisposti” sembrano essere le parti sociali e le amministrazioni dei territori. Attraverso l’individuazione dei bisogni concreti dei cittadini e dei territori e l’adozione delle risposte più adeguate.
- Data l’esperienza governativa degli ultimi decenni è difficile immaginare che la soluzione macroeconomica centralista sia in grado di dare tempestivamente al territorio nazionale le risorse e le opportunità di cui ha bisogno per ripartire e ridurre le diseguaglianze. Per le politiche territoriali sembra invece ci possa essere (almeno teoricamente) un più agevole percorso di confronto e contrattazione economica e sociale. Non che le forze sociali (sindacati e imprese) non abbiano competenza e ruolo anche sulle scelte macro-nazionali, ma l’esperienza degli ultimi decenni (dal 23 marzo 2002, per essere precisi) ci insegna che questo ruolo non produce grandi risultati, specie se gestito in forma separata tra i sindacati e le imprese.
- La contrattazione tra le sole parti sociali e tra queste e le istituzioni è una galassia piuttosto complessa e in evoluzione. Proviamo a richiamarne gli elementi essenziali riguardanti i temi trattati.
- La contrattazione “interconfederale”. È quella che tratta diritti, obiettivi e regole generali, senza specificità settoriali, tra i sindacati e le associazioni di imprese. Non è così frequente, come dovrebbe, e da molti anni (ad esclusione di un importante accordo sull’emergenza Covid del marzo 2020) non esiste una triangolazione (o “concertazione” se si preferisce) tra accordi delle parti sociali e Governi. Tanto che il più importante accordo interconfederale degli ultimi anni (2018) ha per titolo “Patto per la fabbrica” piuttosto che, come avrebbe meritato, “Patto per il Paese”.
- Per avviare e diffondere un efficace e coerente percorso di contrattazione dal basso, sarebbe utile e non contraddittorio ripartire da qui: da un accordo interconfederale, un “Patto per il Paese” tra associazioni delle imprese e sindacati, in cui si concordassero gli obiettivi di sviluppo, a partire dalla crescita della produttività, dell’efficienza e delle retribuzioni. Sarebbe auspicabile anche un confronto a tre con le istituzioni di Governo ma, come abbiamo detto, è assai improbabile che accada. Il nuovo Patto potrebbe avere comunque un’influenza importante sui successivi livelli contrattuali.
- I contratti nazionali di categoria. I CCNL di categoria, come sappiamo, hanno accumulato negli anni diversi difetti: sono più numerosi del necessario, molti sono stipulati da associazioni poco rappresentative con risultati inferiori agli altri, spesso si rinnovano con gravi ritardi anche i grandi contratti pubblici e privati, non sempre contengono risultati retributivi significativi (si veda l’ultimo contratto della scuola). Anche i CCNL avrebbero la funzione non solo di ottenere risultati adeguati alla regolazione retributiva e normativa di un lavoro che va riqualificato, ma anche di stimolare e orientare la contrattazione aziendale (o di secondo livello) senza la quale è difficile pensare di affrontare in concreto il rapporto tra produttività, lavoro e retribuzioni.
- La contrattazione aziendale. Confesso di non aver capito quanta contrattazione aziendale si faccia oggi in Italia: in quali settori, in quali aree del Paese. Alla fine degli anni ’80 l’Osservatorio nazionale della contrattazione della Cgil registrava in un triennio circa 8/10.000 contratti aziendali firmati. Oggi, nel Quarto Rapporto sulla Contrattazione di secondo livello della Cgil si parla di 2000 accordi nel triennio, molti dei quali difensivi rispetto a situazioni di crisi aziendali, molti stipulati nelle imprese medio grandi del Nord, con differenze rilevanti tra salario nominale, effettivo e differito (attraverso il cosiddetto Welfare integrativo). Pochi di questi accordi si occupano di orari e di organizzazione del lavoro.
- La contrattazione in azienda potrebbe al contrario affrontare tanti temi: l’ambiente, la sicurezza, l’occupazione, la riqualificazione professionale, l’organizzazione del lavoro, gli investimenti, gli orari, gli inquadramenti, le retribuzioni. Non c’è niente da inventare: solo diffondere le migliori esperienze puntando più esplicitamente agli obiettivi di crescita della produttività e delle retribuzioni. Per raggiungere risultati concreti e progressivi è necessario (questo sì) aprire una nuova stagione di “partecipazione” riconosciuta del lavoro agli obiettivi dell’impresa. Una partecipazione non formale (o per legge) ma fattiva e quotidiana dei lavoratori e dei sindacati alla determinazione degli obiettivi produttivi e delle modalità per raggiungerli: fatti salvi i diritti del lavoro, i vincoli ambientali e di sicurezza.
- È senz’altro vero che occorrono politiche orizzontali che facilitino l’innovazione tecnologica nelle imprese, a partire da quella digitale (com’era “Industria 4.0). E che il sistema creditizio italiano dovrebbe aiutare la crescita degli investimenti delle aziende produttive e di servizio, piuttosto che orientarsi verso la speculazione finanziaria. Ma se le imprese non possiedono una loro strategia di crescita e di innovazione è difficile che si indebitino in un clima di incertezza dal lato dei costi di produzione e delle prospettive di mercato.
- La contrattazione territoriale di categoria. Nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia, dove è più difficile che le imprese abbiano una loro sede e dimensione certa, esiste la pratica concordata della contrattazione territoriale. Un confronto di secondo livello che non si fa azienda per azienda ma nei territori, regolato dai CCNL, con esperienze non generali ma certamente positive, in grado di ridurre la concorrenza sleale fra imprese, stabilire regole e livelli retributivi omogenei, e concordare indirizzi concreti di crescita del settore.
- Dato che la stragrande maggioranza delle imprese italiane è di piccola e piccolissima dimensione, sarebbe molto utile estendere la contrattazione territoriale di categoria anche ad altri settori. Per rendere più omogenee le condizioni di lavoro ed evitare la concorrenza al ribasso. Ciò non significherebbe, ovviamente, introdurre un terzo livello contrattuale ma scegliere, in maniera del tutto volontaria, tra la contrattazione aziendale e quella territoriale. In questo ambito sarebbero anche necessari e utili incentivi che promuovano l’aggregazione fra imprese.
- La contrattazione sociale territoriale. Da diversi anni nel nostro Paese si pratica anche la cosiddetta “contrattazione sociale territoriale”, un percorso più confederale che di categoria, rivolto in gran parte al miglioramento dei servizi pubblici e praticato soprattutto dai sindacati confederali e dei pensionati nei confronti degli Enti Locali. Dai rapporti annuali sulla contrattazione sociale territoriale si coglie tuttavia il dato che questo tipo di contrattazione (per un numero medio annuo di 500/800 accordi) riguarda quasi esclusivamente Regioni e Comuni del Nord Italia. Questa esperienza potrebbe, se diffusa e resa omogenea per indirizzi e finalità, diventare la leva fondamentale per verificare la qualità dei servizi di Welfare delle regioni e dei territori a partire dalla scuola e dalla sanità. E divenire uno strumento generale di controllo e miglioramento del benessere sociale sostenibile. Sembra purtroppo non sia stata utilizzata nemmeno per concordare l’impiego delle risorse del PNRR.
- Il percorso contrattuale e concertativo, confederale e di categoria appena descritto, necessita per essere attuato di una nuova stagione di unità sindacale. Una unità sindacale non fatta per calcoli di convenienza di ciascuna sigla ma basata sulla condivisione degli obiettivi di nuova crescita economica e sociale dell’Italia. Speriamo che questa idea prevalga in fretta sui tatticismi più politici che sindacali degli ultimi mesi. Per fortuna, alle divisioni confederali nazionali, si sono fin qui accompagnate esperienze contrattuali unitarie nelle categorie e nei territori.
- Naturalmente, per attuare questa riorganizzazione innovativa del sistema contrattuale sarebbe necessario che anche le organizzazioni delle imprese (a partire da Confindustria) tornassero ad essere protagoniste del “dialogo sociale” e non solo comparse occasionali. Speriamo.
Gaetano Sateriale



























