Mattarella resta al Quirinale e Draghi resta a Palazzo Chigi. Viva, gridano tutti, dai palchi e dal loggione, spellandosi le mani nell’applauso. E risultato migliore, infatti, non ci si poteva augurare. Ma presentarlo come una faticosa vittoria del buon senso e una secca sconfitta delle velleità e delle mire dei leader di partito (tutti), come hanno fatto all’unanimità giornali e commentatori, è una lettura di comodo. La narrativa corrente, centrata sull’insofferenza del Paese nei confronti del Parlamento, sulla rivolta dei peones contro partiti senza bussola, sulla lentezza con cui i leader si sono resi conto, in blocco, della spinta inarrestabile che partiva dal basso liscia, infatti, il pelo agli umori dell’antipolitica che fanno audience nei talk show, ma è piena di buchi vistosi, contraddizioni taciute, omissioni mirate. In una parola, è tutta un’altra storia.
Cominciamo con le omissioni. La sgradevole settimana di trattative a vuoto intorno alle urne in Parlamento è anzitutto risultato diretto delle ambizioni opposte, ma convergenti, di Sergio Mattarella e di Mario Draghi. Probabilmente, più del secondo che del primo. Se, a tempo debito, Mattarella avesse lasciato intendere di essere anche disponibile, di fronte ad una richiesta generale, a restare al Quirinale, l’avrebbe avuta e ci saremmo risparmiati una settimana di pessimo show. E’ possibile, anzi probabile, che Mattarella volesse accomodare una esplicita richiesta di Draghi. Cosa spingesse l’antico banchiere verso un incarico a lui alieno come la Presidenza della Repubblica non è tuttora chiaro, ma stupisce che un uomo accorto come l’ex presidente della Bce non abbia, nei mesi che hanno portato a gennaio, saputo sondare e saggiare il grado di consenso fra i partiti che, per proiettarlo al Quirinale, non poteva che essere pressoché unanime. Davvero Draghi ha continuato ad accreditare l’ipotesi di una sua candidatura al buio, senza un paio di telefonate preventive a Salvini e a Letta? Una cosa era entrare al Quirinale alla Ciampi, su un onda unanime o quasi. Un’altra, a forza e a dispetto, per assenza di alternative. Nessuno dica più che Draghi è un astuto politico.
Se le responsabilità della faticosa elezione presidenziale sono anzitutto di Draghi e Mattarella, non si può dimenticare la sorprendente quanto fatiscente autocandidatura a padre della Patria di Silvio Berlusconi. Un caso umano, più che politico. Ma la sua discesa in campo secondo l’uso della casa, cioè il mercimonio dei voti nel parco buoi dei corridoi del Parlamento, ha avuto l’effetto di rendere volgare e squallida, fin dall’inizio, la corsa al Quirinale. Se questo è stato l’effetto mediatico, altrettanto disastroso è stato quello politico: imbavagliare il centro destra, vincolandolo ad una candidatura impossibile e avvelenata. Se è vero che questa elezione del presidente della Repubblica punisce anzitutto il centrodestra, il primo clamoroso flop è stato l’incapacità di bloccare, sul nascere, la velleità di Berlusconi.
Le traiettorie di Mattarella, Draghi e Berlusconi rendono già anomala questa elezione presidenziale all’italiana, ma c’è un elemento anche più vistoso. Una settimana per arrivare all’elezione non è poi molta lunga se si tiene conto che, a differenza degli altri paesi con cui si fanno i confronti, in Italia la maggioranza di governo è retta solo dalla consapevolezza che bisogna stare insieme per forza. Il risultato – anomalo – è una situazione in cui tocca al centrodestra (che ha più voti ma non abbastanza) proporre un nome, ma il centrosinistra (che ha meno voti, ma quanti bastano a bloccare l’avversario) ha potere di veto.
In questa situazione ha fallito Salvini che non è stato capace di individuare un nome a cui Pd e 5Stelle non potessero dire no. Tutto questo ha ricaschi politici ed elettorali importantissimi, ma, anzitutto, la domanda è: come è possibile che lo schieramento politico presumibilmente maggioritario nel paese non sia in grado di individuare un nome sufficientemente autorevole da tacitare gli avversari?
Questo, ormai, non è un caso, ma un deficit strutturale del centrodestra e un vero problema politico per il paese. Nel giro, in fondo, di pochi mesi, il centrodestra ha toppato le candidature a presidente di due Regioni che sarebbe stato, altrimenti, in grado di strappare al centrosinistra, come Emilia e Toscana. Subito dopo è andato incontro ad un disastro anche più fragoroso nelle comunali di Roma, Milano, Napoli e Bologna. E, ora, il Quirinale. Più che di deficit di classe dirigente, c’è da parlare di vuoto.
Singolare, per uno schieramento politico che, sopratutto attraverso la Lega, è in grado invece sicuramente di esprimere buoni amministratori. Ma dal Comune, alla Regione e, soprattutto, al Quirinale, il centrodestra sembra incapace di reclutare personale insieme autorevole, accreditato, istituzionalmente rappresentativo. E’ un deficit che si può capire in un movimento nuovo, anzi nuovissimo, iconoclasta e ribellista come i 5Stelle. Ma, se non Fratelli d’Italia, almeno Lega e Forza Italia hanno ormai un quarto di secolo al vertice del paese. Professori, intellettuali, giuristi, banchieri zero?
Nel caso di FdI, il nodo è storico. Fino a che Giorgia Meloni non coglie l’occasione (l’assalto di Forza Nuova alla Cgil gliela aveva data, ma non l’ha colta) per rompere apertamente e definitivamente con il fascismo, l’establishment istituzionale e il suo personale sono terreno vietato. Per Forza Italia è la spinta corrosiva di Berlusconi e della sua problematica morale istituzionale a rendere fragile e scivoloso qualsiasi rapporto con l’establishment. Ma la Lega? Qui, probabilmente, conta l’immagine pubblica della Lega, che non è quella – operosa ed efficiente – di Giorgetti e di Zaia, ma quella chiassosa, provocatoria, rancorosa del Salvini a caccia di immigrati e di condoni per gli evasori.
Per nessuno dei tre partiti del centrodestra sarà facile liberarsi in fretta di questi impacci. Ma, a quanto pare, sono stati sufficienti anche per impedire a Salvini di seguire la tattica infallibile adottata da chi, prima di lui, ha vinto le battaglie del Quirinale. Alla fine, vince chi indica per primo il nome che arriva in porto, non importa se è, o no, uno dei tuoi. Nel centrodestra non sono riusciti a mettersi d’accordo neanche su quello.
Maurizio Ricci