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Home - Approfondimenti - Analisi - La forza dei sindacati: se è vero che cala e come si misura

La forza dei sindacati: se è vero che cala e come si misura

di Mimmo Carrieri
5 Maggio 2021
in Analisi
Il sindacato e le sfide dei territori

1. Il testo che Jelle Visser ha preparato per l’Ilo [1] costituisce una vera e propria miniera conoscitiva, imprescindibile per qualunque analisi relativa alla forza e alla influenza del sindacalismo su scala comparata.

A Visser si deve, insieme a tanti studi e ricerche importanti, l’impegno costante per la costruzione di un database, disponibile presso l’Università di Amsterdam, che raccoglie tutte le  informazioni statistiche basiche relative alla membership e alle principali dimensioni quantitative del fenomeno sindacale.

In qualche modo il  contributo,  cui facciamo riferimento in questa sede,  può essere considerato come una estensione di questo sforzo ricognitivo in direzione di un ambizioso ritratto globale che attraversa le tendenze in atto nei diversi continenti, senza limitarsi ai paesi occidentali che pure hanno tradizionalmente costituito la culla elettiva di questi studi. Lo scopo principale di questo insieme di dati informazioni e correlazioni è quello di introdurre indici di misurazione dello stato dei sindacati.

Questo cappello introduttivo serve non solo a sottolineare l’importanza di tutta l’attività scientifica di Visser [2], ed insieme la sua capacità diffusiva, ma anche a rammentare come questi dati costituiscano una fonte necessaria e da prendere sul serio: in particolare se si vuole approfondire la conoscenza dei sindacati come macchine organizzative. Anche se, va detto subito, proveremo a relativizzare alcune delle suggestioni che sono contenute nel Rapporto dell’Ilo.

Cerchiamo quindi in primo luogo di capire quali sono le tesi di fondo che emergono da questo scritto.

In prima approssimazione e per fornire una formula sintetica Visser descrive un quadro di crescente difficoltà dei sindacati su scala globale.  Non si tratta di una novità, perché i rischi di ridimensionamento della presenza sindacale sono al centro delle discussioni scientifiche da almeno da due decenni[3].

Gli aspetti che rendono più stringenti e preoccupanti le sollecitazioni che derivano da questo studio sono diversi.

In primo luogo, come ricordato, la mole di dati utilizzata, che serve a confermare e supportare visivamente un trend discendente della consistenza dei sindacati.

In secondo luogo il tentativo, sostanzialmente riuscito, di dare conto di una tendenza sistemica e mondiale, finora di fatto non affrontata in modo compiuto da nessuno sforzo comparato (e da questa ampiezza di sguardo emergono anche informazioni contro-intuitive).

In terzo luogo lo sforzo di operare un fine tuning per evitare immagini troppo generiche e di maniera. Di qui anche l’uso attento dei concetti: per quanto venga osservato e sostenuto  l’ indebolimento dell’azione sindacale si evitano formule semplificatrici come crisi o declino (che sono certamente dietro l’angolo), le quali non consentono di mettere meglio a fuoco la qualità dei problemi e le situazioni nazionali differenziate. Insomma dietro i ragionamenti di Visser  non si celano letture catastrofiste.

In quarto luogo l’aver predisposto strumenti per analizzare   anche le variabili che spiegano gli aspetti più virtuosi del fenomeno sindacale, accanto a quelle che operano manifestamente in modo meno favorevole. Dunque  in questo ritratto, ricco di dati ma anche di sfumature, prevalgono i chiaroscuri piuttosto che colori netti e vistosi.

Il quadro d’insieme risulta comunque caratterizzato da un calo negli indici quantitativi relativi alla membership e alla copertura sindacale. Sono gli indici relativamente più semplici da acquisire, anche se non sono sempre del tutto precisi ed attendibili, come sappiamo succede anche   riguardo alla realtà italiana. Nello stesso tempo essi si prestano ad essere per così dire immediatamente traducibili in una chiara misurazione plasticamente evidente.

Qui incontriamo però una prima eccezione verso la propensione a mettere tutto sullo stesso piano. In effetti da questi dati si segnalano, nel corso degli ultimi due decenni, andamenti più positivi e in crescita per il continente africano e per quello latino-americano. Una conferma che l’idea di una contrazione inevitabile e come trend storico, se accertata, si attaglia piuttosto al tradizionale bacino europeo ed occidentale. Ovviamente i paesi più avanzati hanno contato, e contano, molto nell’esperienza sindacale e quello che avviene in questa porzione di mondo, cui anche noi apparteniamo, riveste una rilevanza strategica. Nello stesso tempo, anche riguardo a questa fetta di paesi sono da riportare le avvertenze avanzate negli anni scorsi dallo stesso Visser[4] che se la tendenza generale è al ribasso, pure persistono significative differenze nella dinamica e nei pesi.

Dobbiamo ricordare come nel corso degli ultimi anni Visser, che in passato aveva resistito alle interpretazioni mainstream sui sindacati, si sia associato,  dati alla mano,  alle  prevalenti letture più pessimistiche in materia. Che nel suo caso sono state però sempre accompagnate dalla costruzione degli strumenti concettuali idonei a cogliere i fattori che operano a favore della forza sindacale insieme a quelli che invece spiegano risultati più negativi. Quindi in sostanza anche per il bacino dell’Europa occidentale il riferimento ad indicatori qualitativi, come ad esempio l’influenza politica e istituzionale, consente di smussare il restringimento descritto dai dati numerici.

Come è noto,  gran parte delle valutazioni relative alla forza dei sindacati sono collegate ai dati relativi agli iscritti, in particolare quelli tradotti nei tassi di sindacalizzazione. Le tabelle  che  illustrano queste tendenze mostrano certamente  in ordine ai paesi europei ‘core’ una difficoltà crescente, che si avvia negli anni ottanta del novecento e che si manifesta pienamente nel nuovo secolo abbracciando in pratica tutte le differenti realtà nazionali. Il numero degli iscritti ai sindacati era conteggiato, e in certa misura resta ancora, in milioni di tessere. Queste danno vita non solo ad esiti  di natura simbolica, ma  anche  all’acquisizione di benefici importanti per le finanze delle organizzazioni e le loro attività, e contribuiscono – anche se non sempre in modo determinante – ad assicurarne la riproduzione. La riduzione degli iscritti dunque non incide solo sulla immagine dei sindacati, ma può penalizzarne più o meno significativamente  l’ampiezza della loro azione. Questo spiega anche perché i sindacati meglio posizionati hanno provveduto a differenziare le fonti delle loro entrate, con lo scopo di garantirsi continuità finanziaria e controllo delle oscillazioni relative alle adesioni. Ricordiamo anche,  in questa chiave, come il tasso di sindacalizzazione possa essere considerato come una proxy importante dell’ampiezza dell’ insediamento delle organizzazioni. Ma anch’esso non ci racconta l’intera storia della forza sindacale. Basti pensare al fatto che l’Italia è in questo momento il paese dell’Europa occidentale con il numero più alto di iscritti, circa 13 milioni, ma nello stesso tempo  l’alta presenza dei pensionati – un peculiarità del nostro sistema – mentre aiuta una elevata densità associativa non contribuisce ad innalzare i valori percentuali del tasso.

Quindi non è in dubbio che la sindacalizzazione sia da considerare come l’espressione di una attività rilevante oltre che un parametro  necessario per cogliere l’evoluzione della forza sindacale. Nello stesso tempo, come ci ricorda  lo stesso Visser, un indicatore numerico ancora più importante in questa chiave riguarda piuttosto la copertura negoziale, che indica la quantità percentuale di lavoratori che godono di tutele collettive contrattuali. In effetti tale dato coglie in modo più nitido l’effettiva capacità di produrre esiti  positivi da parte dell’azione sindacale verso la propria constituency. Esso risulta in generale più ampio, qualche volta decisamente più ampio rispetto al tasso di sindacalizzazione: con la evidente eccezione dei paesi nei quali prevale la contrattazione decentrata, e in cui i numeri della sindacalizzazione e della copertura risultano non solo inferiori ma anche complessivamente tra loro sovrapposti. Quindi il grado di copertura si avvicina maggiormente, e in modo non solo teorico, all’impatto dell’azione sindacale e alla sua idoneità a raggiungere i propri fini organizzativi, che consistono in larga misura nella capacità di assicurare al numero più ampio di lavoratori una qualche tutela. Inoltre tale parametro in alcuni casi aiuta con chiarezza a smentire la  convinzione che la sindacalizzazione possa operare come una misura esaustiva. Come è infatti possibile vedere nel caso francese, dove ad una bassa sindacalizzazione fa da pendant una elevatissima copertura: cosa che ci invita a riflettere sui fattori istituzionali che supportano l’allargamento delle protezioni per i lavoratori.

2. Con l’aiuto degli indicatori messi a punto da Visser possiamo ricostruire quali variabili incidano sul ruolo del sindacati e in che modo. Chiariamo quindi che in questo caso abbiamo in mente variabili ‘interne’, che riguardano l’evoluzione di lungo periodo del rapporto tra organizzazioni e ambiente sociale, piuttosto che variabili ‘esterne’ che prendono in considerazione l’impatto di un ambiente più largo (la globalizzazione, l’andamento dell’economia etc.).

I fattori critici, secondo  la lettura di Visser, tendono a prevalere, producendo quindi effetti depressivi sugli spazi d’azione dei sindacati.

In primo luogo un aspetto sul quale viene attirata più volte l’attenzione riguarda la bassa propensione dei giovani verso l’iscrizione e la partecipazione sindacale, anche se non mancano alcune esperienze positive e in controtendenza.

In secondo luogo la prevalenza dentro il nuovo mercato del lavoro di occupazioni instabili e di lavoratori che vengono definiti come ‘informali’ (una categoria che abbraccia un vasto numero di lavori e lavoretti ‘volatili’ e qualche volta ‘invisibili’).

Naturalmente queste due diverse dimensioni si presentano in molti casi come significativamente sovrapposte.

Il peso di queste variabili è naturalmente molto consistente e spiega tanti problemi, ma non mancano segnali  sociali di altro tipo a cui si possono associare evoluzioni più positive per i sindacati.

Il primo riguarda l’allargamento nell’importanza e nei numeri, a partire dalla sindacalizzazione, della presenza femminile, in precedenza largamente sottoutilizzata, specie in alcuni paesi.

Il secondo si riferisce invece alla capacità di attrazione crescente verso gli immigrati, i quali come conseguenza  diventano progressivamente parti attive dei movimenti sindacali  in molti dei paesi nei quali vivono.

Tutte queste variabili denunciano in qualche modo che i ragionamenti relativi ai destini dei sindacati  di fatto  ruotano principalmente  intorno a quanto succede nei paesi più avanzati, per i quali disponiamo di una  ampia massa di informazioni. Insomma una sorta di pregiudizio eurocentrico, che ci ricorda tanto la sua importanza che l’esigenza di relativizzare quanto accade in questa parte del mondo.

A tale riguardo bisogna ricordare le utili correlazioni  che vengono avanzate tra forza sindacale e tipi  e stadi dello sviluppo economico. Per quanto non si arrivi – ed è  francamente difficile farlo – ad esiti conclusivi risulta manifesto in chiave sia storica che d’attualità il collegamento positivo tra sviluppo fordista e incentivi all’azione sindacale: facilitato dalla presenza di lavoratori generici in grandi ambienti produttivi, come era già avvenuto in passato nei paesi occidentali. Resta il fatto che di fronte al delinearsi di traiettorie di sviluppo differenziate, solo alcuni paesi (Cina, Corea, Brasile e qualche altro) appaiono più prossimi, e per alcune fasi della loro crescita, a questo idealtipo.

Altre correlazioni interessanti da segnalare sono quelle, non banali ma neppure sorprendenti, che evidenziano il rapporto positivo tra paesi ricchi e ruolo dei sindacati, e al contrario l’effetto depressivo che rivestono le economie arretrate nei confronti di una adeguata  presenza sindacale.

All’interrogativo di quali sono i fattori, non solo quantitativi, che identificano la forza dei sindacati Visser suggerisce, sulla scorta di lavori precedenti ma con qualche preziosa integrazione, un catalogo di indici del radicamento sindacale.

In primo luogo l’insediamento organizzativo nei luoghi di lavoro misurato dalle elezioni periodiche di rappresentanze di base, sostenute da leggi (o contratti) e dalla loro estensione e rilevanza dei loro poteri.

In secondo luogo una attività di rappresentanza imperniata sulla contrattazione, ma integrata anche da altre modalità d’azione, come l’erogazione di servizi anche  di carattere individuale.

In terzo luogo la presenza riconosciuta nell’arena politica e istituzionale, che può portare al condizionamento più o meno incisivo di politiche pubbliche, quale si configura ad esempio in modo esplicito attraverso l’elaborazione di patti concertativi, ma che può manifestarsi anche attraverso altre modalità.

Infine, un tassello, mancante in passato, che consiste nel grado di reputazione sociale dei sindacati all’interno della comunità nazionale, che può essere fornito da rilevazioni periodiche sul gradimento da parte dei cittadini (e non solo dei lavoratori).

3. Nella parte conclusiva del suo studio Visser delinea quattro possibili scenari per il futuro.

Tutti scenari plausibili, da quelli più ottimistici che raccontano un possibile, a quelli più negativi che descrivono l’ipotesi di una progressiva marginalizzazione dei sindacati.

Eppure Visser ci ricorda, direttamente o indirettamente, due cose importanti.

La prima è che non si esauriscono i problemi e le criticità presenti nel mondo del lavoro; anzi per certi versi le attuali insicurezze  e le numerose criticità che lo affliggono appaiono destinate a  lievitare: quindi  esiste e forse cresce una domanda di rappresentanza dei lavoratori che muove dalle contraddizioni della loro vita ‘dentro’ il lavoro.

La seconda che la  maggiore verosimiglianza  di uno scenario rispetto agli altri  dipenderà in certa  misura (cioè fatti salvi i condizionamenti ambientali ‘esterni’) dalla capacità di risposta strategica soggettiva degli attuali attori sindacali, o dall’emersione di ‘nuovi’ soggetti: è collegata quindi al tipo di offerta di rappresentanza collettiva che essi si mostreranno davvero in grado di plasmare e  di mettere in opera.

Il rischio che si incontra spesso nelle scienze sociali – e da cui non si mostra del tutto esente questo testo – consiste nel fornire una prospettazione del futuro che si risolva in semplice proiezione della descrizione delle tendenze e degli accadimenti attuali.

Rispetto al ritratto che dunque emerge dall’analisi di Visser vale forse la pena di esplorare qualche pista che può integrare quelle che egli indica e indurre ad un maggiore ottimismo su basi realistiche. In tal senso l’idea da cui muovere è  che il peso sindacale non dipende solo da indici quantitativi ma da un più generale posizionamento nelle singole realtà nazionali, nelle loro culture e nei loro assetti istituzionali (una avvertenza già declinata in modo efficace tempo fa[5]).

La sindacalizzazione, o altre misure quantitative, sono importanti ma non sono tutto. Il suggerimento è piuttosto quello di orientare l’attenzione verso altre attività e dimensioni che suppliscono integrano ed in qualche caso sostituiscono l’ampiezza della membership:  come quelle che abbracciano un’ampia gamma di azioni e di incentivi, che va dalle mobilitazioni collettive e dalla fornitura di identità alle tutele contrattuali e  alle attività  di erogazione di servizi anche in chiave individuale.

In via generale dobbiamo comunque osservare come i segnali di crescita registrati nelle economie più deboli non appaiono tali da rendere gli attori sindacali dei veri  protagonisti nelle loro realtà nazionali, e bisognerà capire se in prospettiva questi trend vedranno una ulteriore evoluzione.

Per altro verso  la vera novità positiva potrebbe essere costituita in futuro dall’incremento (ulteriore) del loro ruolo in alcune economie emergenti, come il Brasile, il Sud Africa e la Corea, paesi segnati da nuclei, più o meno ampi di produzione fordista.

Inoltre, aspetto qualificante, si può ritenere che nonostante le tendenze al ribasso i sindacati dell’Europa occidentale, pur con qualche eccezione, mostrino importanti tracce di resilienza e di continuità all’interno dei loro paesi.

Un passaggio utile  per arricchire il gioco può delinearsi in relazione ai caratteri principali presenti nelle diverse aree europee: se si intende  favorire una più attenta valorizzazione – o se volete non svalutazione – dello spazio e del ruolo assolto dai sindacati. In altri termini se è vero che alcuni paesi sono chiaramente più ‘forti’ (come quelli nordici in virtù dei sistemi Ghent) ed altri più nitidamente a rischio declino (come il Regno Unito, in ragione della prevalenza di una contrattazione ‘troppo’ decentrata) ragionare fuori da gerarchie prefissate, e con qualche indicatore in più, può consentire di evitare il rischio di una notte con vacche tutte dello stesso colore.

Una esercitazione di questo genere porta a  considerare ad esempio che alcuni paesi a sindacalizzazione calante possano ugualmente essere considerati ‘forti’ o comunque ‘influenti’. E’ il caso in particolare della Germania e della stessa Olanda , paesi nei quali il riconoscimento istituzionale dei sindacati, specie sotto forma di sostegno alla rappresentanza nei luoghi di lavoro, compensa finora significativamente la riduzione della sindacalizzazione (e in questa direzione muoveva il sopra citato saggio di Regini).

Quanto ai sindacati nei paesi mediterranei, che quasi sempre, con la parziale eccezione dell’Italia, sono  considerati come ‘deboli’, parlarne ci consente anche di avanzare qualche considerazione generale.

I sindacati di questi paesi, parliamo in primo luogo di Italia e di Francia, ma in larga misura anche della Spagna, sono in prevalenza ritenuti poco rilevanti: anche se non è da sottovalutare  la buona reputazione di cui godono la  loro relativa tenuta e la solidità organizzativa nel caso italiano.

Inoltre nell’ultimo decennio  le precedenti zoppie sembrano essersi approfondite . Infatti si è assistito al progressivo ridimensionamento della concertazione (particolarmente vistoso nel nostro Paese), che era stata variamente importante nella realtà spagnola e in quella italiana. Mentre nel contempo il tentativo della Presidenza Hollande di far decollare prassi equivalenti nel sistema francese non approdava a risultati consistenti e durevoli. In realtà nel complesso di questi Paesi resta significativo il riconoscimento sociale dei sindacati, ed il riconoscimento istituzionale, spesso sottovalutato, opera secondo vie diverse da quelle  che hanno preso forma nei paesi che godono dei benefici e dei sostegni pubblici sintetizzabili come sistema Ghent (Scandinavia e Belgio): ma in molti casi con esiti virtuosi analoghi, che contribuiscono al loro consolidamento organizzativo.

In sostanza quello che si intende qui sostenere è che le modalità con cui in alcuni Paesi i sindacati esercitano una funzione riconosciuta e considerata risultano forse meno visibili ma altrettanto incisive rispetto a quelle sviluppate nelle esperienze tradizionalmente considerate come più ‘potenti’.

Di questo posizionamento troviamo alcune manifestazioni sul piano sociale: i paesi latini sono caratterizzati dalla presenza di una propensione elevata alla mobilitazione collettiva, che ha trovato ripetute ondate di canalizzazione della protesta in particolare nel caso francese (dove attualmente questa funzione è contesa però da altri soggetti).

Ma anche sul piano istituzionale  rintracciamo la conferma di un ruolo non secondario  svolto da quei sindacati. Rispetto a questa dimensione va segnalato come il possibile ridimensionamento della partecipazione decisionale (leggasi concertazione e derivati) non limita la presenza sindacale in organismi pubblici o  per altri versi il consolidamento, spesso in posizione quasi-monopolistica, della fornitura di alcuni servizi parapubblici.

Insomma dobbiamo leggere il contributo di Visser come una importante occasione per  ragionare intorno alla costruzione sistematica di un modello di analisi del peso dei sindacati. Un modello che dovrebbe essere orientato a cogliere l’insieme delle variabili, spesso differenti nei diversi paesi, che concorrono a costruire la mappa delle ‘risorse di potere’ a disposizione dei sindacati [6]. Una mappa nella quale gli indici di misurazione quantitativa occupano naturalmente il loro giusto posto, ma non esauriscono l’intero catalogo della forza sindacale.

Mimmo Carrieri

 

 

 

 

[1]  Alla fine del 2020 l’Ilo ha fatto circolare la versione  italiana dello scritto apparso l’anno precedente: J.Visser, I sindacati in transizione, ILO, Ginevra, 2020

[2] Si veda anche in precedenza l’importante affresco appartenente  allo stesso filone:  J.Visser, Trade Unions in Western Europe Since 1945, Palgrave Macmillan, London, 2000

[3] Per limitarci all’Italia ricordiamo G. Baglioni, L’accerchiamento, Bologna, Il Mulino, 2008  e M.Carrieri e P.Feltrin, Al bivio. Lavoro sindacato e rappresentanza nell’Italia di oggi, Roma, Donzelli

[4]  J.Visser, The Rise and Fall of Industrial Unionism, in “Transfer”, n.1, 2012

[5]  M.Regini, I mutamenti nella regolazione del lavoro e il resistibile declino dei sindacati europei, in “Stato e mercato”, n.1, 2003

[6] Un promettente tentativo in questa direzione si può trovare in  S. Lehndorff H. Dribbusch e T.Schulten, Rough waters. European trade unions in a time of crises, ETUI, Bruxelles, 2017.

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