Fra i dibattiti più in voga negli ultimi tempi vi è quello della cosiddetta “recessione attesa” che non arrivando viene posticipata di volta in volta. A recedere, almeno da noi, nel frattempo sono, e non da ieri, i redditi di una sempre più vasta fascia di lavoratrici e lavoratori e delle loro famiglie senza che vi sia una riflessione di fondo su come mutare scenario ed orizzonte.
Il dato-spia di questa situazione è costituito dalla velocità dell’aumento delle entrate per lo Stato in termini di imposte e contributi rispetto a quello ben più contenuto del Pil, un 5,8% contro un 2,7%. Cifre non controverse ma che, a quanto pare, nel confronto politico non tirano per la giacca alcuna scelta di politica economica e fiscale di un qualche rilievo.
La pressione fiscale è arrivata a livelli che non si vedeva da anni: 42,5%, spinta in su dall’aumento dei prezzi, l’inflazione, ma anche dalle conseguenze che esso ha a cascata deprimendo però al tempo stesso consumi e potere di acquisto. Ma l’erosione “invisibile” sta producendo altri effetti negativi e non solo quelli collegati alla contrazione di risparmio e investimenti. Si sta verificando soprattutto sul ceto medio, che va verso il basso, una serie di esclusioni da servizi fondamentali che deriva dalla incuria nella quale si sono abbandonati i limiti che permettono di usufruire di agevolazioni sociali come l’accesso ai nidi, alle mense scolastiche ed altri sostegni al reddito che non compaiono nelle statistiche ma pesano sui bilanci familiari non poco. Una rivalutazione di tutti questi limiti in modo razionale, progressivo ma incisivo, a livello locale e nazionale, potrebbe favorire una inversione di tendenza di sicura efficacia sociale. Ma non si vede ad esempio ancora una strategia politica di questo tipo emergere nella attuale contrapposizione fra maggioranza e opposizione anche solo con la manifestazione di proposte alternative.
Il caso più classico resta però quello del fiscal drag su salari e stipendi che impoverisce il mondo del lavoro in quanto non è possibile solo con la contrattazione parare i colpi del costo vita e della tassazione che si accanisce sul rigonfiamento nominale dei redditi da lavoro e da pensione.
Vi sono allora due campi di analisi ed azione da poter sperimentare prima che la sempre più intollerabile deriva dei redditi provochi un disagio sociale sempre meno governabile.
Il primo punto che non si può eludere dovrebbe essere quello di rivedere tutta la tematica delle indicizzazioni come del resto è segnalato da alcuni studiosi attenti a ciò che realmente avviene. Non si tratta di riesumare la scala mobile ma almeno si potrebbe iniziare rivalutando già i vari limiti fiscali e sociali che sono rimasti notevolmente indietro rispetto alle dinamiche per legge del prelievo fiscale e della corsa dei prezzi. Aggiungendo sul piano del sostegno ai redditi da parte dello Stato alcune delle proposte sindacali in materia di esenzione di taluni benefici salariali.
Ma la questione più delicata riguarda poi il futuro della contrattazione: Il mondo del lavoro sta cambiando velocemente. Negli Stati Uniti ormai il manifatturiero è sotto la soglia del 30% a favore della espansione dei servizi. L’intelligenza artificiale in poco tempo potrebbe limitare ancor di più il peso del settore produttivo. Non possiamo non tenerne conto anche per quanto riguarda la situazione europea e italiana. Se vogliamo restare un settore manifatturiero è necessario dotarsi di una strategia industriale all’altezza dei tempi ma anche immaginare un’evoluzione delle relazioni contrattuali che tengano conto delle priorità produttive ma anche della vera realtà delle nostre imprese. Insomma servirebbe una revisione di tutto l’impianto contrattuale che va dal contratto nazionale alla contrattazione aziendale. Ed ancora più urgente sarebbe una riconsiderazione del sistema contrattuale nel settore dei servizi anche al fine di evitare che con il declino dei diritti si accresca il rischio del lavoro irregolare e di bassi stipendi che anche la migliore soluzione del salario minimo non potrebbe esorcizzare.
La riflessione su questo punto è più che attuale solo se si osserva che in Europa diverse economie hanno già recuperato il livello dei salari pre Covid, da noi siamo ancora sotto di diversi punti, circa l’8%.
Naturalmente è necessario prima di tutti evitare che questo divario si accresca oppure non riesca a diminuire. Ma ciò non toglie che sia assai utile prefigurare un nuovo percorso della contrattazione per il quale servirà tempo, capacità di confronto, approfondimenti seri, una sorta di nuova alleanza fra forze sociali e cultura, uno sforzo non piccolo per evitare che le relazioni industriali finiscano in un ghetto ininfluente rispetto alle decisioni economiche decisive per lo sviluppo.
È un lavoro di lungo corso, ma che può avere anche in tempi brevi esiti che siano in grado di restituire ai giovani che cercano lavoro, al lavoro dipendente, agli stessi pensionati la speranza che qualcosa si può e si deve cambiare. E questa volta, come è loro diritto, in meglio.
Paolo Pirani – Consigliere CNEL