La produttività rallenta. Salita dell’1,8 per cento fra il 1995 e il 2000, è cresciuta solo dell’1,5 per cento nei primi cinque anni del nuovo secolo, ha subito gli effetti della crisi nei cinque anni successivi con un miglioramento limitato allo 0,3 per cento e ha stentato fra il 2010 e il 2018 con un più 0,9 e poi uno 0,7 per cento. Peccato che questi dati, che pure confermano la scarsa vitalità delle economie dei paesi avanzati, riguardino la Francia. Perché quello che è un campanello d’allarme a Parigi, in Italia è una sirena che suona a distesa ormai da un quarto di secolo. La produttività italiana, infatti, non rallenta. È scomparsa. I tempi – fra il 1995 e il 2000 – in cui il prodotto per ora lavorata, in Italia, aumentava dell’1 per cento sono lontani, quasi mitici. Fra il 2000 e il 2005, l’aumento è stato di un microscopico 0,1 per cento. La crisi dei cinque anni successivi l’ha addirittura tagliata dello 0,2 per cento. La ripresa (2010-2014) è stata meno che anemica: più 0,3 per cento. E fra il 2014 e il 2018, non si è mossa foglia: l’indicatore della produttività segna zero.
E’, probabilmente, il dato statistico più importante dell’economia italiana. Se la produttività non cresce, non cresce neanche l’economia. Se l’economia non cresce, il rapporto fra debito e Pil resta alto, mancano i soldi per gli investimenti, i salari sono bloccati, l’inflazione latita, la domanda ristagna e l’economia, appunto, non cresce: il cerchio si chiude. L’Italia è da decenni prigioniera di questa trappola. È cambiato, però, l’innesco. Negli anni ’80, erano gli imprenditori a sventolare la bandiera della produttività, accusando le pastoie del sindacato di impedire una piena utilizzazione del lavoro. Oggi, dovrebbero essere i sindacati ad agitare con forza quella bandiera. Nell’economia moderna, dicono gli economisti dell’Ocse (l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati), produttività non significa “lavorare di più”, significa “lavorare meglio”. E attrezzature e formazione professionale non sono, in prima istanza, nelle mani del sindacato.
Dietro il tracollo della produttività dell’economia italiana c’è, infatti, anzitutto, un problema di qualità del posto di lavoro, da un lato, di qualità dell’occupazione, dall’altro. I dati dell’Ocse mostrano con chiarezza come l’industria italiana si stia ripiegando su sé stessa e gli effetti che questo ha sui salari. Fra il 2000 e il 2017, le imprese che registravano una produttività sopra la media hanno perso 110 mila posti di lavoro. Quelle con una produttività sotto la media ne hanno guadagnati 170 mila. Che vuol dire? Che l’occupazione si sta concentrando nelle aziende meno produttive e che fanno crescere meno l’economia. Risultato immediato? Salari più bassi: le aziende che pagavano salari sopra la media nel 2000 risultavano, nel 2017, aver perso 55 mila posti di lavoro. Le aziende che pagavano sotto la media avevano, nel 2017, 115 mila addetti in più a libro paga.
È quello che succede quando il mito della flessibilità del lavoro si rivela il tormento del lavoro precario. Il lavoro precario, infatti, costa complessivamente meno, ma rende anche complessivamente meno. Uno studio dell’università di Torino mostra che un aumento del 10 per cento dell’occupazione part time si traduce in una diminuzione dell’1,45 per cento della produttività dell’azienda.
Proviamo a proiettare questi dati su base nazionale. Dal 2008 ad oggi, l’Italia ha perso un milione di posti fissi e ne ha guadagnati altrettanti part time. I sottoccupati sono raddoppiati a 668 mila e chi è costretto a lavorare part time, perché non riesce a trovare un lavoro normale, è cresciuto più del doppio, da 1,2 a 2,8 milioni. La prima a svanire, nell’universo del lavoro precario, è la formazione professionale. Il risultato è che l’Italia si trova ad affrontare la realtà globale delle turbotecnologie con una forza lavoro sempre più scadente: dal 2008, ci sono nelle fabbriche e negli uffici, 362 mila tecnici e professionisti in meno. Ci sono, invece, 437 mila lavoratori non specializzati e 861 mila esecutivi in più. Siamo un paese che guarda indietro.
Maurizio Ricci