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Il Diario del Lavoro

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Home - Approfondimenti - Interviste - ‘’La speranza riformista che ci manca’’. Parla Romano Prodi, esclusiva il Diario del Lavoro

‘’La speranza riformista che ci manca’’. Parla Romano Prodi, esclusiva il Diario del Lavoro

di Francesco Lauria
27 Agosto 2025
in Interviste
‘’La speranza riformista che ci manca’’. Parla Romano Prodi, esclusiva il Diario del Lavoro

ROMANO PRODI, POLITICO

“Un grande sindacato unitario, lo ribadisco, cambierebbe anche oggi, in positivo, il nostro Paese”. Così Romano Prodi, in questa conversazione esclusiva per il Diario del Lavoro. Il Professore affronta anche i temi della politica internazionale, dal ruolo dell’Occidente al nuovo capitalismo dell’era di Trump, fino alle guerre in Ucraina e Medio Oriente. A proposito delle quali afferma: “Mentre penso possibile una pace in Ucraina, pur non del tutto equa, ritengo che non ci siano soluzioni all’orizzonte per palestinesi ed israeliani. Oggi il problema dell’odio è “più eterno” di quanto pensava Dossetti”.

Conversazione con Romano Prodi, a cura di Francesco Lauria

Romano Prodi (sul campanello c’è, ovviamente, anche il cognome Franzoni, dell’amatissima moglie Flavia) abita in un piccolo condominio in pieno centro di Bologna, per arrivare a casa sua occorre salire due rampe di scale. Ma, mi rimprovera subito bonariamente lo stesso Prodi, vedendomi giungere ansimante alla soglia della sua abitazione: “c’è anche l’ascensore…”. Due rampe, del resto, non sono nulla di impegnativo per il Professore, appena tornato dalle vacanze estive a Carloforte con la vasta tribù dei figli e dei nipoti: ogni giorno, mi dice, si riservava almeno otto chilometri di corsa, in attesa che il resto della famiglia si risvegliasse.

La casa è sobria, piena zeppa di fotografie. Per prima cosa Prodi mi mostra un l’ultimo ritrovato tecnologico arrivatogli dalla Cina: due occhiali eleganti che visualizzano, simultaneamente alla conversazione con le persone, la traduzione scritta, in qualsiasi lingua…E sì, sospira, “la professione degli interpreti è davvero finita!”. Dopo una chiacchierata sui temi della politica, della democrazia, del sindacato e sui due nostri percorsi di vita personali, iniziamo a registrare la conversazione che segue.

Lauria: Nel 1981 Pippo Morelli, indimenticato sindacalista della Cisl, rifletteva pensoso dalla finestra del suo ufficio del sindacato emiliano romagnolo, di cui era segretario. Era il momento dell’affermazione massima di Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Pippo Morelli si impegnò a lungo in Brasile, ma non fu un’infatuazione terzomondista. Lui, la Fim, la Cisl, si attivavano nella formazione e nell’alzare l’asticella dei diritti, in particolare dove operavano le multinazionali italiane. Alla luce di questa esperienza, dove, per usare parole di Morelli, stavano e stanno “scivolando l’Occidente e il capitalismo”? Quale il ruolo possibile, anche internazionale, del sindacato?

Prodi: Nella sua domanda si parla di: “infatuazione terzomondista”. Era e sarebbe ancora oggi, un’”infatuazione benedetta. Accusiamo ancora le conseguenze di non avere preso in considerazione, per tempo, quello che stava succedendo nel mondo.Si è delineato un pianeta che si orienta verso l’accordo di tre autoritarismi: uno di questi, la Cina, si è interessata del terzo mondo, gli altri due no cioè la Russia e gli Stati Uniti. Questi ultimi, che avevano appunto il più forte rapporto col cosiddetto “Terzo mondo”, si sono progressivamente, prima lentamente, poi violentemente, ritirati. Da quando è arrivato al potere Donald Trump gli Usa hanno rinunciato del tutto al rapporto con i paesi del “Sud globale”. Se tutto questo ci fosse più chiaro, come europei, credo che avremmo una situazione molto diversa.

Noi ci siamo sempre più distaccati dal c.d. “terzo mondo”, anche siamo stati, pur tra contraddizioni, quelli più attenti ai valori fondamentali della democrazia e dei diritti della persona. Non solo, quelli più attenti, rispetto ai tre “autoritarismi”, ai modelli di organizzazione sociale, come il sindacato.

Con il distaccarci dai paesi del Sud globale, abbiamo rinunciato anche a quella che io ho chiamato: “evangelizzazione dei nostri principi democratici” che avevano e hanno nel sindacato uno degli strumenti fondamentali. Ma qual è il ruolo del capitalismo oggi, dove sta “scivolando” insieme all’Occidente? Il capitalismo sta semplicemente arretrando perché si sta davvero trasformando in uno strumento dell’autoritarismo. Basti pensare che, in pochi giorni, nemmeno in poche settimane, tutti i grandi capitalisti degli Stati Uniti si sono immediatamente allineati a Donald Trump.

Il capitalismo di Trump è uno strumento degli Stati Uniti, è proprio parte del: “Make America Great Again”. Non è un sistema di diritti e di rapporti, ma un prodotto di potere estremamente potente e duro in sé stesso. Purtroppo sono pessimista sotto questo aspetto. Sono pessimista, in particolare, sulla difesa dei diritti, soprattutto sulla difesa dei diritti sociali e sindacali. Questi diritti sono praticamente difesi, nel contesto globale, solo a livello europeo. Ma ritrovano un’Europa assolutamente indebolita, non solo come potere politico e militare, ma anche perché vittima delle sue divisioni. L’Europa non ha più alcuna pretesa/speranza di portare avanti una “dottrina” indipendente, di trasportare nel futuro le sue tradizioni sociali e democratiche, con forza di convinzione. È diventata semplicemente una cinghia di trasmissione del potere di Trump.

Spero che tutto ciò sia provvisorio, ma devo descrivere la situazione per come la vedo oggi, anche se spero in un cambiamento con le elezioni di “mid term”. Le strutture intermedie, a partire dal sindacato, sono assolutamente messe fuori gioco o in posizione del tutto secondaria, non le senti nemmeno richiamare dai governi come uno dei cardini della rinascita europea. È chiaro che ci debbono essere anche gli strumenti della politica estera comune e di una politica della difesa condivisa, ma da soli non bastano.

Abbiamo rinunciato al valore dei corpi intermedi come il sindacato: siamo di fronte ad un’evoluzione/involuzione durissima del capitalismo che ha perfino messo in crisi, secondo me, le concezioni alla Reagan e alla Thatcher. Un capitalismo così legato al nuovo autoritarismo, come quello di oggi, va perfino contro i principi del liberalismo assoluto di questo binomio egemone negli anni Ottanta del Novecento. Il capitalismo odierno vede i governi impadronirsi anche dei legami economici dei Paesi. Trump, ad esempio, decide di mettere in piedi l’industria di Stato cioè comincia a concentrare azioni delle imprese, a controllare la Banca centrale e a promuovere un percorso dirigistico che lui definisce economia liberale, ma che è, in realtà, un’evoluzione autoritaria assai diversa, come ho già rimarcato, da quelli che erano, ad esempio, i principi della Thatcher e di Reagan.

Lauria: Lei ricorda spesso, come esempio positivo ed echeggiando il suo amico cislino Bruno Manghi, un sindacato che: “non basta a sé stesso” e costruisce la stagione “eroica” delle 150 ore per il diritto allo studio. Ci rammenta anche l’importanza, ad oggi inesperita, della necessità di pensare, a oltre cinquant’anni di distanza, alle 150 ore per il futuro, in una stagione in cui si fatica moltissimo a portare avanti anche il solo contratto ordinario dei metalmeccanici. Come e con chi costruire queste 150 ore del futuro? Perché il sindacato, una volta forza trainante intellettuale del paese, oggi non lo è più?

Prodi: È vero, ricordo spesso le 150 ore, proprio come esempio “politico” di lungimiranza e del non bastare a sé stessi. La domanda è assolutamente appropriata anche se non uso più, per il presente e per il futuro, il termine 150 ore, legato a un particolare ed irripetibile momento storico. Il problema oggi è il cambiamento del lavoro che porta, da un lato, a una maggiore indipendenza, in teoria a un minor autoritarismo, ma che dall’altra parte ha prodotto aspetti di centralizzazione estremamente spinti e forti.

Dobbiamo -secondo me, che oggi non sono più uno che partecipa dall’interno a questi processi ma che cerca, semplicemente, di osservarli- considerare il tema dell’autoritarismo anche nel mondo del lavoro. Maggiore e minore autoritarismo sono due processi che convivono e che portano a delle conseguenze del tutto diverse. In questo quadro il sindacato opera un gioco molto difficile perché è complesso diventare lievito, come fu per la stagione delle 150 ore, in una società sempre più frammentata. Il mondo del lavoro è, infatti, frastagliato, ma anche caratterizzato dalle manovre, dall’alto, delle grandi imprese “giganti” multinazionali. Di fronte alla frammentazione, il sindacato ha dei grandi problemi anche a causa del declino delle grandi imprese “tradizionali”, dove la dirigenza sindacale trovava la sua dimensione naturale e la sua più agevole operatività.

Non solo Mirafiori, ma penso anche a Pirelli, Montedison, posti in cui il sindacato elaborava e operava con efficacia. Oggi queste sedi non ci sono più. In Italia non c’è più una impresa che possa essere definita grande a livello internazionale. Non possiamo considerare tali nemmeno Ferrero o Luxottica che sono, pur grandi imprese multinazionali, ma assolutamente frammentate nel territorio e nel loro modello organizzativo. Oggi il sindacato fatica a proporre come obiettivi grandi intuizioni come le 150 ore e a ciò si deve il calo della sua incidenza nel dare un contributo al progresso complessivo della società italiana. Io interpretavo le 150 ore in questo senso: elevare il livello di un’intera classe lavoratrice che ora ci sfugge perché frammentata nella sua composizione. Dobbiamo essere tutti molto più attenti alla formazione tecnica, ma anche trasversale della scuola, ma è oggettivamente difficile suggerire un’idea politicamente aggregante come sono state le 150 ore per il diritto allo studio, una proposta che faccia discutere e progredire, insieme, a partire dal lavoro e dalla scuola, tutto il paese.

Lauria: Parliamo allora della crisi dei corpi intermedi e della questione dell’unità sindacale, un suo vecchio pallino. Come vede il sindacato italiano nel contesto proprio del ruolo dei corpi intermedi e del welfare sussidiario? Come e con quali priorità ritiene sia possibile ricostruire l’unità sindacale?

Prodi: Purtroppo debbo confessare che, se in passato, questa mia mania dell’unità sindacale è stata ritenuta un’utopia, adesso lo è ancora di più. Per me è un grande dispiacere perché se noi avessimo ottenuto l’unità sindacale, oggi avremmo davvero un Paese diverso. Penso alle difficoltà interne al sindacato come aggregatore di principi di ricomposizione e aggregazione sociale.

Con un sindacato unitario rovesceremmo positivamente la gerarchia attuale dei valori e potremmo esercitare proposte politiche che abbiano reale capacità di penetrazione. Questo senso, afflato per l’unità sindacale per me è, tuttora un grande valore, e mi dispiace che non venga nemmeno preso in considerazione: oggi tutte le politiche sociali, con l’attuale frammentazione, ne avrebbero bisogno. Quanto sarebbe importante per il nostro welfare se ci fosse una struttura sindacale unificante, con robusti centri studi, un suo pluralismo interno, una sintesi da proporre al Paese! Faremmo passi in avanti molto significativi e il sindacato non sarebbe condizionato dai personalismi interni, riscoprendo, al contrario, una grande forza propositiva, nascente anche da positivi compromessi. Senza il sindacato non ci sono altri protagonisti positivi della politica del welfare; ci sono importanti associazioni, penso, ad esempio, all’Asvis di Enrico Giovannini, utilissime al dibattito, ma che non possono ovviamente ricoprire lo stesso ruolo. Un grande sindacato unitario, lo ribadisco, cambierebbe anche oggi, in positivo, il nostro Paese. Almeno io la penso così.

Lauria: Nel suo ultimo libro-conversazione con Massimo Giannini: “Il dovere della speranza” lei riprende Giuseppe Dossetti e due suoi scritti del 1990 e del 1993. Dossetti, da monaco, ma anche da: “allenatore di civili coscienze” rifletteva, in queste occasioni, sull’Islam e sul Mediterraneo.  Lei afferma anche, con rammarico, che: “nessuno è stato a sentire Dossetti sull’Islam”.  Quando saremo finalmente costretti a farlo? Come le forze del lavoro, anche alla luce della recentissima richiesta unitaria di Cgil Cisl Uil di riconoscere lo stato palestinese, possono impegnarsi in questa sfida?

Prodi: Ricordo che quelle parole, quando furono pronunciate da don Giuseppe, eravamo ancora ai margini della guerra fredda, mi sembrarono sorprendenti. Certo, lui era stato in Palestina, aveva una conoscenza diretta, ma si caratterizzava anche per l’intelligenza di comprendere a fondo le radici dei processi. Oggi quei testi ci appaiono, in buona parte, profetici. Abbiamo un mondo in cui il problema dell’islamismo, del suo isolamento, ma anche della sua crescente importanza nella società di oggi, è diventato elemento determinante. L’Islam non solo domina la politica del Medio Oriente, ma controlla, determina, la gran parte dei fenomeni delle migrazioni, condiziona gli equilibri economici di una parte del mondo. Ha in sé, un’idea di infinito, rispetto alla quale Dossetti aveva capito assolutamente tutto.

Mentre penso possibile una pace in Ucraina, pur non del tutto equa, ritengo, purtroppo, che non ci siano soluzioni all’orizzonte per palestinesi ed israeliani. Oggi il problema dell’odio è “più eterno” di quanto pensava Dossetti. Quello che ha fatto e sta facendo Israele, in particolare a Gaza, inoltre, sta avendo l’effetto di far dimenticare al mondo quanto di gravissimo è successo il 7 ottobre 2023.

Il tema del rapporto con l’Islam e del conflitto israelo-palestinese, in sintesi, è ancora più complesso, irrisolto e drammatico di come lo descriveva Dossetti all’inizio degli anni Novanta del Novecento.

Lauria: Torniamo a parlare di economia. Lei, più volte, si è espresso a favore del salario minimo, estraneo alla tradizione sindacale cislina, ma, fino a qualche anno fa, avversato anche da tutte le altre confederazioni sindacali italiane. Perché? Come andrebbe introdotto, a suo parere, nel delicato contesto delle relazioni industriali del nostro Paese?

Prodi: Mi scuso se mi esprimo in maniera apparentemente tranchant, ma, per me, si tratta semplicemente di una questione di buon senso. Introdurre un salario minimo a 9 euro all’ora, significa proteggere i lavoratori che vengono oggi “torturati”, massacrati. Per il resto del mondo del lavoro, il sindacato conserva assolutamente la sua libertà, la sua capacità, la sua necessità di contrattare le condizioni di lavoro e il salario. Io considero il salario minimo come uno strumento a favore dei lavoratori emarginati che, peraltro, in massima parte non hanno nemmeno alcun rapporto con il sindacato. La funzione delle organizzazioni di rappresentanza del lavoro rimane assolutamente immutata con il salario minimo. Introducendolo, invece, si fornisce protezione a coloro che vengono sfruttati in modo infame, il 10-15 per cento dei lavoratori del nostro Paese. In sintesi, io considero il salario minimo come un soccorso necessario in una società scombinata.

Lauria: Torniamo, ancora a Pippo Morelli. Il sindacalista, reggiano come lei, che parlava spesso di “compagni”, come coloro che spezzano il pane insieme: “cum panis”. Proponeva di tornare alla radice vera delle parole. Rivendicava il: “diritto e dovere di dissentire”, un sindacato che costruisce ponti e carovane, ascolto, cura, sogno e visioni. È una stagione finita, o possiamo, ancora, coltivare il “dovere della Speranza”?

Prodi: Forse le mie risposte precedenti non hanno lasciato molte aperture alla Speranza. Mi esprimo meglio: non dobbiamo mai, assolutamente, abbandonare la Speranza, i sogni, la visione. Ma non possiamo, allo stesso tempo, non riconoscere le difficoltà che affrontiamo oggi, vale per il sindacato come per tutta la società, partiti politici compresi, Dobbiamo impegnarci a governare i cambiamenti e, per quanto tutto ciò possa risultare complesso, non possiamo certamente abdicare al: “dovere della Speranza”.

Lauria: Quando è scomparsa improvvisamente la sua amatissima moglie Flavia, lei ha parlato della condivisione di “tanto cielo, ma anche di tanta, tantissima terra”. È un’immagine che mi ha molto colpito e che si collega, mi permetta un paragone forse inopportuno, a quella di un sindacato, fatto di uomini e di donne, tratteggiato dal prete operaio cislino Beppe Stoppiglia: “dipinto di cielo, ma macchiato concretamente di terra” e, per chi è credente, “racconto di Dio”. Come si è accompagnata l’ispirazione cristiana nel suo impegno pubblico, professionale, culturale e istituzionale? Quanto e come ha contato, in particolare nei momenti più difficili?

Prodi: L’ispirazione cristiana ha, per me, contato moltissimo, non ho alcuna remora a dirlo, anche se in questi ambiti bisogna usare il massimo pudore. A domanda diretta, però, voglio rispondere con sincerità. Sono stato fortunato, appartengo ad una generazione, penso al mio Collegio Agostinianum dell’Università Cattolica di Milano, in cui la mole dell’impegno cristiano e civile era impressionante. La società, peraltro, era pronta ad accoglierla. Mi pongo, però, un grande interrogativo. Cosa accade ai ventenni di oggi? Se penso al mio periodo tra i 18 ed i 25 anni, lo ricordo come quello in cui la “compromissione” tra vocazione cristiana e vocazione politica, insieme universalistica ed identitaria, era elevatissima. Vivevo un ambiente che era generalmente pervaso, impregnato di tutto ciò. Oggi un ragazzo o una ragazza, in quali luoghi può vivere e sperimentare la propria ispirazione cristiana? Penso certamente alle Ong, alle grandi associazioni, al mondo del volontariato. Manca, però, una vera “speranza riformista” propria del mondo cattolico, ma anche di quello socialista. Oggi è difficile per i giovani vivere esperienze peculiari e, insieme, di massa, rischiamo un impegno, un attivismo, di elites. Nella mia generazione, invece, “cielo e terra” erano davvero spiritualmente e concretamente intrecciati.

Diciamoci, poi, la verità. Non possiamo prescindere dalla grande crisi del mondo cristiano e del mondo cattolico, in particolare. In questi giorni, ad esempio, mi hanno colpito molto le analisi di Le Monde, sulla crisi del cattolicesimo francese di fronte ai cambiamenti della società transalpina. Una crisi che, con un ritardo di cinque anni, è la stessa a livello italiano. Se penso a: “cielo e terra” di allora, nella mia formazione questa crisi non c’era. C’era, invece, un mondo cattolico impegnato che toccava, laicamente, tutti gli aspetti della vita sociale e politica.

Lauria: Una domanda conclusiva. Nel suo ultimo libro, mentre affronta i passi cruciali per salvaguardare la democrazia, lei parla dei giovani italiani, ma anche delle seconde generazioni di immigrati (i “nuovi italiani”). Afferma: “I ragazzi sentono forte l’angoscia per il loro futuro. Quelli che possono se ne vanno dall’Italia. Non sono felici di emigrare, ma si rendono conto di vivere in un Paese che dà loro poche garanzie. Questa è la vera sfida per il futuro”.  Al di là delle tante analisi, parliamo di soluzioni. Come si gioca la dura partita del nostro mercato del lavoro, delle competenze, della mancanza di ascensore sociale? Quali sono le politiche e le alleanze da attuare, in primis, per i giovani che lasciano il paese come negli anni Cinquanta del Novecento?

Prodi: Questa è una domanda che mi tocca molto. Ognuno è impressionato da quello che vede e che vive. Io cerco, in questo tempo, di parlare molto con i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori, faccio ancora parecchie “conferenze”. Parlo con i miei nipoti, con i loro amici. Mi riferisco a ragazzi di 14, 15 anni. Solo pochi mesi fa mi è stato detto in una scuola superiore: “Per noi è importante svolgere un anno di studio in America o in qualche altro paese estero, perché, se ci toccherà emigrare, saremo preparati”. Mi ha colpito ascoltare giovanissimi tratteggiare queste ipotesi. Purtroppo i giovani italiani vedono precluso il loro orizzonte, si sentono espropriati del proprio destino, del proprio futuro. Concepiscono l’emigrazione come soluzione, proprio come negli anni Cinquanta del Novecento. Per dare risposte a questi ragazzi non bastano soluzioni economiche. Il problema salariale è evidentemente importantissimo, i giovani non riescono a pensare a costruire una famiglia. Ma il vero tema per i giovani di oggi non è solo economico, ma politico. Deve tornare l’orizzonte dell’Europa come protagonista del futuro del mondo. Un orizzonte valoriale, ma anche tecnologico, penso alle questioni dei telefonini o delle auto elettriche statunitensi e cinesi. L’aumento dei salari è importante, ma, ripeto, non basta. Dobbiamo tornare a dare a giovani italiani ed europei il senso di appartenere a una società che può, di nuovo, contare a livello globale. Se i ragazzi pensano a emigrare ora negli Stati Uniti, in questi Stati Uniti sfrangiati di Donald Trump, c’è oggettivamente un problema. I giovani, insomma, desiderano appartenere, costruire e ricostruire una società creativa. Con il “dovere della Speranza” …

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