Il 10 gennaio del 1969, quarant’anni fa, veniva firmato l’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. L’intesa era stata raggiunta al ministero del Lavoro il 18 dicembre e nei giorni successivi le assemblee dei lavoratori avevano ratificato quell’accordo praticamente all’unanimità. Era il frutto dolce dell’autunno caldo, una stagione di rivolte e successi sindacali che non ha avuto ripetizioni nella storia sindacale del nostro paese, forse del mondo intero. In pochi mesi, settimane addirittura, cambiò tutto il mondo del lavoro. La lotta dei lavoratori fu netta, senza tentennamenti, e proprio per questo fu vittoriosa. Fu il ministro del lavoro, Carlo Donat Cattin, a imporre l’intesa, ma furono i sindacati a vincere sostenendo le loro rivendicazioni fino in fondo.
La storia, la genesi, il day by day di quella battaglia è stata ricordata in un bel libro edito dalla Fondazione Bruno Buozzi, autore Giorgio Benvenuto, presidente della Fondazione, ma soprattutto allora segretario generale della Uilm, una delle tre organizzazioni sindacali dei metalmeccanici, vero leader accanto a Bruno Trentin, segretario generale della Fiom, e di Pierre Carniti, segretario generale della Fim, di quella stagione di lotte. Il volume, dal titolo evocativo: Millenovecentosessantanove, i metalmeccanici e l’autunno caldo, è stato presentato alla Biblioteca del Cnel con la partecipazione di alcuni dei protagonisti di quegli eventi, che hanno ricordato i particolari, il clima economico, sociale e politico in cui quell’esperienza maturò, i frutti che da quella esperienza sono venuti per tutta la realtà sindacale, tentando anche qualche spiegazione del momento non felice che il movimento sindacale sta attraversando in questi ultimi anni. E così è stato ricordato il combinarsi di particolari situazioni che vennero a consentire quella stagione di cambiamenti: la profonda trasformazione della classe operaia, dopo l’immissione di una grande moltitudine di lavoratori che dalle campagne erano approdati all’industria, dal sud del paese al nord; la debolezza della classe politica, dopo i primi, ma tangibili fallimenti del centrosinistra quando si era arrestata l’ondata riformista; la fragilità del sistema economico e produttivo, non a caso alla vigilia di profonde ristrutturazioni, realizzate poi negli anni 70; la crescita culturale in atto nel paese che aveva dato consapevolezza di sé a grandi masse di cittadini; il fermento rinnovatore che agitava i cattolici dopo il concilio Vaticano II.
Tutto ciò, è stato ripetuto nel corso della presentazione, portò all’autunno caldo, punto di riferimento preciso per chiunque si interessi alla storia delle relazioni industriali. Numerosi i frutti di questa stagione politica. Il primo, un salto dei salari, ma non forte come si potrebbe credere. Più importante la scomparsa delle barriere che dividevano impiegati e operai. E’ stato Luigi Angeletti a ricordare come lui, impiegato da pochi mesi in una media azienda, avesse la mensa separata da quella degli operai, con tovaglie e tovaglioli dove per gli operai c’erano solo tavolati di legno: ma ancora più pesavano le ferie a metà, il trattamento malattia anche questa la metà che per gli impiegati, le distanze delle retribuzioni, vere differenze tra classi.
E poi l’altra grande conquista, quella dei diritti sindacali. Fino a quel momento il sindacato era quasi clandestino nelle fabbriche, chi si iscriveva passava guai o rischiava di passarli: il cambiamento fu forte, perché si ottennero diritti di assemblea, di riunione, realizzando in fin dei conti solo diritti garantiti dalla Costituzione, dando garanzie di poter svolgere il lavoro di sindacalisti.
Insomma, una svolta profonda. Frutto dell’ondata del ’68, che la primavera precedente aveva attraversato la gioventù di tutto il mondo occidentale, rinnovandolo profondamente? Le opinioni sono diverse. Molti di coloro che hanno preso la parola alla presentazione del libro hanno teso a dire che in realtà furono due esperienze diverse, non assimilabili, non fosse che perché la vampata studentesca, è stato detto, non approdò a nulla di concreto, mentre quella operaia portò cambiamenti che pesarono moltissimo negli anni seguenti e pesano ancora. Ma dire che ci fu solo qualche labile collegamento tra le due esperienze è impossibile, perché il ’68 aveva acceso gli animi di una generazione e questo non potette non pesare molto fortemente anche sui destini delle battaglie degli operai. I quali lottarono duramente perché erano animati da una grande speranza, quella di vincere, ma credevano nella vittoria proprio perché il ’68 l’anno precedente aveva mostrato che tutto era possibile a chi voleva davvero una trasformazione della realtà. Insomma, ci fu certamente un influsso forte anche se si trattò di storie diverse nella loro essenza. Del resto, non è difficile pensare che gli operai fossero più realisti degli studenti e che le loro battaglie avessero più continuità, proprio considerando le condizioni di vita dalle quali partivano.
Più difficile il confronto con il presente. Una cosa sola è emersa con forza dal confronto di idee. Che quarant’anni fa era forte la speranza, mentre adesso i giovani non sperano più, su tutto il resto vince sempre la paura. Del domani, di non farcela, di non riuscire, di perdere. Una zavorra che trascina in fondo, che impedisce di decollare. Per questo è necessario trovare una forza che ci liberi da questa zavorra, da queste paure. L’imperativo allora è tornare a sperare e a credere. Per prima cosa in se stessi.
Massimo Mascini
8 gennaio 2010
























