Ieri il Segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, è tornato a ripetere una delle sue migliori battute. In mezzo alle polemiche che hanno preceduto e accompagnato il Primo Maggio 2023, e che probabilmente proseguiranno nei prossimi giorni a causa della sovrapposizione delle sbandierate iniziative legislative del Governo Meloni con la Festa dei Lavoratori, Landini ha suggerito al medesimo Governo di occuparsi più degli aeroporti, da cui partono i giovani laureati italiani in cerca di lavoro all’estero, che non dei porti (cioè delle coste) dove sbarcano i migranti africani e asiatici in cerca di un approdo europeo che consenta loro di mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, miseria e fame.
Assonanze azzeccate e battute riuscite a parte, l’episodio mi pare meritevole di citazione perché richiama l’attenzione su uno dei fenomeni allo stesso tempo più macroscopici e meno discussi fra quelli che affliggono, e non solo da ieri, il nostro Paese. Come è noto, tale fenomeno è stato rubricato con la denominazione di “fuga dei cervelli”. Ma si tratta di una definizione fuorviante, perché dà l’idea che a partire siano dei piccoli geni dotati di particolari capacità mentali. Quando, in realtà, il fenomeno è più vasto e andrebbe chiamato col suo vero nome: emigrazione dei laureati.
Confesso di non aver condotto studi in merito. Mi limito a partire dalla mia esperienza di vita, ovvero dai racconti raccolti, negli ultimi quindici-venti anni, fra parenti, amici e conoscenti (inclusi dei lavoratori dell’industria della mia generazione).
Credo che la cosa possa essere descritta così. Al di là di quello che si crede, mi sono fatto l’idea che in Italia abbiamo delle Università che, comparativamente, possono essere considerate buone quando non ottime. Da una ventina d’anni, quando i nostri giovani laureati si affacciano all’estero, ovvero, diciamo, negli altri Paesi europei, ma anche nel mondo di lingua inglese, dagli Stati Uniti all’Oceania, non trovano particolari difficoltà a procurarsi una borsa di studio post-laurea o un lavoro. Le nostre lauree, infatti, sono conosciute e apprezzate più di quanto non si dica.
Fin qui, la cosa non può che apparire buona. Immagine positiva di un aspetto importante del nostro Paese, il nostro sistema di istruzione pubblico, e, per conseguenza, belle possibilità che si aprono davanti ai nostri giovani.
Purtroppo, però, a questo punto del nostro ragionamento bisogna chiedersi: cosa spinge questi giovani laureati a cercare lavoro all’estero? E qui cominciano le cattive notizie. Perché il problema è duplice. Da un lato – al di là del dibattito sulla precarietà dei rapporti di lavoro, fenomeno sulla cui diffusione esistono diverse valutazioni quantitative -, c’è la questione relativa ai livelli retributivi. Livelli che, per unanime giudizio di ricercatori e commentatori, sono non solo troppo bassi, ma stagnanti rispetto a una realtà europea (ed extraeuropea) in movimento. Dall’altro lato, sta invece la questione del costo delle abitazioni che, sia come affitti che come prezzi all’acquisto, sono significativamente più care di quanto non fossero per i giovani degli anni 70 e 80.
Da ciò deriva che un giovane laureato che trovasse un posto di lavoro in Italia, specie se in una città diversa da quella in cui abitano i suoi genitori, si troverebbe i difficoltà a pagare l’affitto (o il mutuo) di una nuova abitazione e, contemporaneamente, a mantenere sé stesso e a sostenere i costi di una famiglia in formazione. Mentre se, grazie anche a mercati del lavoro più fluidi, trova un impiego all’estero, riesce a pagarsi un’abitazione e a dare un valido contributo al mantenimento di eventuali figli.
Contemporaneamente, come sappiamo tutti, in Italia trovano lavoro figure di lavoratrici e lavoratori che arrivano dall’estero con progetti meno “ambiziosi”. Ed ecco il bracciante nord-africano, la badante romena, l’edile moldavo, la cameriera albanese, il raider senegalese.
Da qualche tempo, si parla molto del cosiddetto mismatch, ovvero di quel mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro che viene lamentato da un numero crescente di imprese. Imprese che ritengono di non aver bisogno della generica disponibilità a lavorare offerta da un giovane che si candida all’assunzione, ma di candidati che siano già dotati di una specifica formazione professionale. Imprese che, insomma, non cercano tanto un aspirante operaio, ma un saldatore, né solo un aspirante impiegato, ma un softwarista. E non li trovano.
Ma la mia impressione è che, a monte di questo mismatch, per così dire, aziendale, che rende problematica l’attività dei capi del personale, nonché quella delle agenzie interinali -, ci sia un più ampio mismatch che mi permetterei di definire sociale.
In sostanza: grazie a una sistema pubblico di istruzione, che, a conti fatti, è assai migliore di quanto spesso non si creda, il nostro Paese produce una quantità (purtroppo decrescente per motivi demografici) di giovani istruiti – ingegneri, medici, fisici, informatici, e via andando – che non vengono assorbiti né dal sistema delle imprese, né dal pubblico impiego, e se ne vanno all’estero portando con sé ciò che hanno imparato tra scuola media superiore e università.
All’estremo opposto del mercato del lavoro, le imprese agricole e quelle del terziario, come oggi si dice, “di mercato”, ma anche quelle edili e parte dell’industria manifatturiera, nonché molte famiglie, assorbono lavoro meno o poco o quasi per nulla qualificato: quello offerto dai diversi tipi di migranti che incontriamo ormai quotidianamente nel nostro Paese.
In mezzo fra questi due estremi c’è una generazione di giovani o ex giovani, fra i venti e i quarant’anni, che si trascina fra un impiego e l’altro. Impieghi il cui difetto non è solo quello di essere talvolta precari e spesso mal pagati, ma soprattutto quello di non assorbire quasi mai per intero le potenzialità qualitative di tale lavoratore o di tale lavoratrice.
Concludendo. Io non so cosa si potrebbe fare per risolvere il problema di questo mismatch sociale. Ho solo due modeste certezze. Primo: non lo si può, né lo si deve risolvere abbassando l’offerta qualitativa del nostro sistema di istruzione. Secondo: per tentare di risolverlo in altro modo, bisognerebbe almeno porselo, questo problema, mettendolo al centro del dibattito politico, economico e sindacale del nostro Paese.
Si vedrebbe allora che la questione salariale, ovvero la questione delle retribuzioni troppo basse che caratterizzano, spesso, non solo il lavoro dequalificato ma anche quello più qualificato, non ha solo un effetto negativo sulla vita dei singoli e depressivo sulla domanda interna, ma ha anche conseguenze sociali disastrose sul sistema-Paese. Tra cui, non ultima quella di spingere le giovani coppie di lavoratori qualificati ad avere dei figli all’estero, finendo così con l’accrescere quei problemi demografici che sono stati troppo a lungo trascurati.
Insomma, il nostro è un Paese che esporta manodopera più qualificata mentre importa manodopera meno qualificata. Qui la cosa evidentemente negativa è la prima, non la seconda. La seconda, fra l’altro, dipende da fattori, come oggi si dice, geostrategici, che sono appunto quelli che determinano l’emigrazione di massa dall’Africa centrale e settentrionale, nonché dall’Asia occidentale. La prima, invece, è in gran parte nelle nostre mani.
Ora, posto che sia vero ciò che io credo, ovvero che sia decisiva la questione delle retribuzioni troppo basse, per risolvere tale questione non credo sia sufficiente una lotta sindacale incentrata su richieste salariali. Né penso che possano bastare iniziative fiscali volte a alzare il potere d’acquisto delle medesime retribuzioni. Ciò che sarebbe veramente necessario, come molti dicono, è una crescita della produttività. Della produttività del lavoro nelle singole aziende, come di quella del sistema-Paese. Insomma, ciò che servirebbe sono investimenti volti a rendere le imprese più produttive e più capaci di pagare salari più alti in cambio di lavori più qualificati. Come diceva quello, tutto si tiene.
@Fernando_Liuzzi