Il nostro codice civile, all’art. 2103, prevede il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito. Il datore di lavoro, di converso, è titolare dello ius variandi potendo cambiare le mansioni già attribuite al lavoratore con il mantenimento per altro dello stesso livello qualitativo e professionale. Lo stesso codice civile dal 2015, con l’avvento del Jobs act, prevede che il datore di lavoro, nel caso in cui modifichi i suoi assetti organizzativi che incidono sulla singola posizione del lavoratore, può attribuire mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, con il mantenimento del precedente trattamento economico del livello superiore.
In questo quadro normativo, che negli ultimi anni ha subito le modifiche che abbiamo indicato, si inserisce la vicenda giudiziaria oggetto del nostro esame.
Un lavoratore ha agito avanti il Tribunale di Bologna assumendo di essere stato dequalificato dal 2006 per essere stato lasciato in una condizione di inattività totale e ha chiesto il risarcimento del danno professionale e del danno morale. La Corte di Appello di Bologna ha riconosciuto la dequalificazione professionale solo dal 2006 al 2012. Per il periodo successivo ha escluso una qualsiasi dequalificazione perché il lavoratore era stato effettivamente utilizzato in mansioni inferiori rispetto alla sua assunzione ma ciò era avvenuto “in forza di un patto di dequalificazione accettato dal lavoratore”, che era stato sottoscritto tra le parti in esecuzione di un accordo integrativo aziendale del 2011 con la specifica finalità di evitargli la perdita del posto di lavoro. Sebbene i fatti risalgano ad epoca antecedente al Jobs act del 2015 e, quindi, in epoca antecedente alla riforma dell’articolo 2103 del codice civile, la Corte di Cassazione ha rigettato l’impugnazione della sentenza della Corte di Appello di Bologna da parte del lavoratore perché “in ogni caso, essa ha esattamente applicato il principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui è valido il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni, e conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali sia stato assunto o che successivamente avesse acquisito, per la prevalenza dell’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c., qualora vi sia il suo consenso, libero e non affetto da vizi della volontà e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell’accordo. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha in fatto accertato la conclusione di tale patto tra le parti nell’ambito di una crisi aziendale comportante l’esigenza di una riduzione del personale, …ed entro la fine dell’anno 2012 nella cessazione di venti rapporti di lavoro subordinato per prepensionamenti e adesione volontaria alla mobilità, nella ricollocazione di diciannove dipendenti all’interno del medesimo stabilimento e di sette presso quello di Rotterdam “. (Cass. civ., sez. Lavoro, 8 luglio 2021, n. 19522).
Da questa decisione della Cassazione si evince che la modificazione dell’articolo 2103 del codice civile in materia di mansioni ad opera del decreto legislativo numero 81 del 15 giugno 2015, Jobs act, è il frutto di un orientamento giurisprudenziale che si è voluto consacrare in una norma di legge, comunque, meno garantista per il lavoratore dell’indirizzo giurisprudenziale da cui ha tratto spunto. Per la giurisprudenza ante 2015, come quella che abbiamo citato, il mutamento delle mansioni in peius poteva avvenire solo di fronte allo stato di necessità di evitare il licenziamento e solo con il valido ed esplicito consenso del lavoratore interessato; con la nuova norma del codice civile, invece, il mutamento delle mansioni in peius può avvenire ricorrendo semplicemente “la modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” interessato. Non è più necessario il valido consenso del lavoratore e nemmeno l’ipotesi estrema della necessità di dover mutare le mansioni per evitare il licenziamento. Nel caso in cui il datore di lavoro muti le mansioni, con il nuovo testo legislativo in vigore, ha l’obbligo di comunicarlo al lavoratore interessato per iscritto, a pena di nullità assoluta. Questo obbligo di comunicazione per iscritto del mutamento delle mansioni nel testo precedente a quello del 2015 non sussisteva.
Per quanto concerne la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale o morale per dequalificazione professionale, la Corte di Cassazione in questa sentenza ha affermato che ” è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertare in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o di svilirne i compiti ;”. La prova di questo danno non patrimoniale spetta al lavoratore. La Corte sottolinea che il lavoratore tuttavia “non deve necessariamente fornire questa prova per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. ” Cass. civ., sez. Lavoro, 8 luglio 2021, n. 19522 .
Biagio Cartillone