È davvero singolare che mentre Mario Draghi al meeting di Rimini inchioda l’Europa al rischio concreto di insignificanza, a Tianjin colossi del calibro di Cina, India e Russia aprano per l’ennesima volta gli occhi del mondo su dove si gioca la competizione internazionale basata oggi su impietosi rapporti di forza sul piano economico e delle scelte strategiche. E pensare che quella città cinese fu agli inizi del ‘900 possedimento europeo, anzi…italiano. Ma in questi giorni l’Europa non fa neppure da usciere. La storia si diverte e…non smette di mettere in guardia.
Quando si parla di rapporti di forza si commette, talvolta, un grave errore: ci si riferisce al procedere di autoritarismi che impongono il loro volere, in primo luogo, come potenze militari riducendo ai minimi termini regole e mediazioni. Invece, si trascura che i rapporti di forza che contano e generano tutti gli altri sono innanzitutto economici e produttivi e sono questi ad aver provocato la stessa politica dei dazi per certi versi “difensiva” di Donald Trump. Inutile accorgersi ora che il mondo vira verso Oriente. E che tale virata, per giunta, ha aperto nuove rotte di primaria importanza che non passano certo dal Mediterraneo, bensì, dallo scenario del Pacifico come pure dal nord artico per finire …al Mar Nero che Putin esige sotto il suo controllo.
In questo senso l’Europa mostra un ritardo esiziale, come se avesse atteso, nella fortezza descritta nel romanzo “Il deserto dei tartari”, qualche antagonista che invece l’aveva snobbata ed aveva preso da tempo altri percorsi.
La politica europea è certamente malata nelle sue classi dirigenti, dove la mediocrità e le …giaculatorie la fanno inutilmente da padrone. A ciò si aggiungono nazionalismi confusi, il crollo culturale e politico del riformismo europeo, le rovine di assi privilegiati, come quello Franco-tedesco che, in realtà, è complice della smisurata crescita del sistema ordinatorio di Bruxelles che ha spedito in soffitta le speranze del manifesto di Ventotene con la prospettiva dell’Europa democratica, di pace e federale, come pure i primi passi…con i piedi per terra degli statisti che hanno avviato il processo di integrazione europea.
Mentre il mondo cambiava, l’Europa si trastullava in una miriade di errori non riuscendo a liberarsi né della ingordigia burocratica, né delle mode avventuriste come il green deal che hanno costituito nuove chimere ideologiche tramutatesi in disastrosa fuga dalla realtà. Realtà che si muoveva per vie molto diverse: Paesi come quelli arabi moderati che fanno valere la loro ricchezza come rivalsa ad ogni minorità; mondi industriali irrefrenabili come quello cinese ed indiano che vogliono riscrivere non solo gli equilibri ma anche i criteri culturali che non fanno parte evidentemente dell’universo e della storia europea; potenze come la Russia che si ribella ad essere considerata “regionale” e come gli Stati Uniti che si prodigano per impedire ogni deriva che implichi un loro declino.
L’Europa in questo contesto fatica persino ad essere un vaso di coccio fra vasi di ferro. Eppure, sarebbe il caso di raccogliere il monito di Draghi, come pure quelli precedenti degli ultimi Papi, cercando di liberarsi di una visione occhiuta di regole e di privilegi per andare al sodo dei problemi che il Vecchio Continente non riesce neppure ad affrontare.
Ma se la questione da aggredire con maggiore immediatezza è quella produttiva ed economica, non c’è dubbio che ancora in questo scorcio di millennio i Paesi europei sarebbero in grado di recuperare posizioni. Si pensi alla politica industriale comune liberata da fumisterie e intrighi burocratici. Sarebbe certamente alla portata del nostro apparato industriale venire riorientata da una nuova cooperazione fra Stati e grandi gruppi, come, per un verso, fu la scelta degli anni ‘50 su carbone ed acciaio che favorì una imponente rinascita produttiva. Questa volta ovviamente le sfide sono diverse e riguardano tecnologie, recupero di produzioni mature ma ancora efficienti, eliminazione di storture, intelligenza artificiale, sbocchi verso nuovi mercati, fine di norme assurde che limitano gli investimenti (vedi la cosiddetta tassa…carbonica) e generano incertezze. Gli Stati europei si dividono viceversa sulle sanzioni contro Putin e non trovano il tempo per decidere insieme come far tornare la produzione industriale europea all’altezza della competitività che oggi è necessaria.
Naturalmente si dovrebbe avere il coraggio di ignorare élite e funzionariato da salotto: la competizione industriale è terreno di lotta, non di elucubrazioni. L’Europa deve ritrovare una grinta, una tenacia, una determinazione che va oltre l’atteggiamento …aristocratico di impianti istituzionali che rischiano di soffocarla, invece che liberarne le potenzialità che pur ci sono. Il lavoro del prossimo futuro dipende dal coraggio e dalla lungimiranza di questo periodo. Anche perché è una illusione difendere valori come la democrazia con il…Parlamento europeo privo di effettivi poteri, quando nel mondo le decisioni fondamentali vengono prese da autocrazie. Si deve essere sinceri nel constatare cosa si è diventati: l’Europa appare sempre più marginale perché non appare più insostituibile in alcun settore della economia e del commercio. Certo, per una svolta profonda occorre il consenso delle popolazioni. E su questo versante sarebbe decisivo ricostruire quella Europa sociale che nel corso degli ultimi decenni è divenuta un fantasma. Un’opera nella quale si può anche combattere l’egoismo della grande finanza e l’assistenzialismo che di fatto è solo una foglia di fico che copre la deriva verso quella insignificanza che Draghi denunciava, peggiorando progressivamente le condizioni sociali ed economiche dei cittadini europei.
Ma il pericolo maggiore, purtroppo, e non debellabile con facilità risulta essere quel recalcitrare dei gruppi dirigenti europei rispetto ad un esame verità degli errori commessi. Peccato capitale resta quello di far finta di nulla, di minimizzare, di rovistare in casa propria per trovare la quadra a problemi che richiedono risposte comuni, innovative, aggressive, di lungo periodo.
L’assenza di una sinistra europea capace di incidere con una rinnovata cultura riformista sulle enormi carenze di questa Europa ha certamente avuto un peso. Ci si è rifugiati in un provincialismo da cortile per lo più, quando invece occorreva ben altra audacia. Si potrebbe obiettare che ripartire è un’illusione visto il passo che hanno le altre economie. Ma in questo caso si tratta di smetterla di osservare con autocommiserazione il proprio ombelico e considerare politica industriale, fiscale, programmatoria quel bene comune prioritario che può evitare il tracollo e la sudditanza. Tempo a disposizione non ne rimane molto. Eppure, molto c’è da fare e molto si può fare. I governi hanno la responsabilità maggiore ma anche le forze sociali possono giocare un ruolo di grande portata.
Paolo Pirani – Consigliere CNEL