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Lo smart working non può essere “octroyè”

Luigi Marelli
Novembre12/ 2021

Dopo la “primavera dei popoli europei” del 1848, molti sovrani, su pressione delle rivolte popolari “concessero” delle Costituzioni che in parte mitigavano i precedenti regimi assolutisti.

Alcune di queste, come ad esempio lo “Statuto Albertino” in Italia, sopravvissero per molti anni, ma si dovette aspettare il 1946 per avere una Costituzione approvata da una assemblea costituente eletta dal popolo a suffragio universale. Ci volle tempo, determinazione e pazienza.

In qualche modo anche lo smart working è stato per una fase, quella della pandemia diffusa, “concesso” come unica soluzione ad evitare che si diffondesse il contagio.

Come tutte le “concessioni” non è una “conquista”, o almeno ancora non ne ha le caratteristiche.

Infatti, passata questa prima fase, si è assistito ad una progressiva “ritirata” di questa specifica modalità di erogazione della prestazione. Dapprima nel pubblico impiego e poi anche in qualche realtà industriale questo modello è stato, in modo più o meno giustificato, rimesso in discussione quanto meno per la sua estensione e per il numero dei lavoratori coinvolti.

Si sono cosi iniziate a palesare le prime vertenze sindacali per difendere e qualche volta allargare, comunque, meglio normare l’attività in smart working.

Con le prime vertenze anche i primi scioperi, nulla di strano, anzi la contrattazione collettiva riprende il suo ruolo, che è quello appunto, di definire le intese “giuste tra le parti”, per regolare le modalità della prestazione lavorativa in azienda, tra queste anche quella del lavoro a distanza.

Per chi come noi si occupa di Relazioni Industriali non può che essere una buona notizia. Finalmente anche su questo tema si esce dallo scontro ideologico tra i favorevoli e contrari, si esce da una concezione “idilliaca” del lavoro a distanza e si entra, nel più concreto terreno che porta le parti a decidere in quali condizioni conviene utilizzare questa particolare forma di lavoro. Come organizzarla per evitare che si traduca solo in una particolare modalità del ben più antico, e poco praticato, telelavoro. Come misurarne l’efficacia e l’efficienza. Come infine inserirlo nell’organizzazione del lavoro aziendale e nei processi che ne devono garantire il più efficace coordinamento.

Insomma a queste “prosaiche” domande deve rispondere, non la letteratura, ma la contrattazione collettiva, perché solo questa sarà davvero in grado di rendere lo smart working un elemento strutturalmente necessario alle attività dell’industry 4.0, con questo termine non mi riferisco solo alle aziende manifatturiere, anzi larga parte di questa nuova modalità della prestazione vede il suo terreno fertile di crescita proprio nell’industria dei servizi.

Questo a condizione che si risponda con precisione ad alcune domande quali: come si misura la prestazione per risultati degli addetti coinvolti nello Smart working? Come si misura la crescita complessiva di efficacia e di efficienza delle organizzazioni che intendono adottare questa modalità della prestazione? È sufficiente basarsi sull’unico parametro, finora utilizzato, quello della riduzione del tasso di assenteismo, per asserire che questa forma di organizzazione conviene?

Si pone infatti una semplice domanda: se il tasso di assenteismo si riduce ma l’output rimane invariato, i problemi, come sa chi si occupa di pianificazione aziendale, sono maggiori e non minori.

Si ha solo la conferma che esiste una “ridondanza occupazionale” per usare una locuzione meno urticante.

Insomma se non si può misurare l’incremento della produttività complessiva del sistema, si rischia di affidare l’applicazione di questa nuova modalità della prestazione, unicamente alla sfera dei sentimenti più o meno favorevoli, ma essa non si affermerà mai come una forma superiore e più efficiente di organizzazione dei fattori produttivi e, senza superare questa soglia, non diventerà mai la modalità egemone per gestire la prestazione lavorativa.

Solo la contrattazione collettiva può e deve individuare queste nuove forme dell’organizzazione del lavoro e le modalità migliori per loro utilizzo.  Non si tratta solo di definire le cornici normative nelle quali questa attività deve essere svolta, la definizione dei tempi di connessione, la regolazione del diritto alla disconnessione, il ristoro delle spese sostenute per la connessione stessa, queste sono tutte questioni importanti che  vanno appunto normate congiuntamente, ma il vero salto di qualità sarà dato da quegli accordi che individueranno le modalità concrete con cui misurare il raggiungimento degli obiettivi, i sistemi per controllarne la misurazione, l’organizzazione dei processi aziendali per garantire a questa attività piena cittadinanza nel mondo produttivo. Solo così si arriverà alle nuove “costituzioni del lavoro”, non più “concesse”, magari a seguito di situazioni emergenziali ma conquistate dalle parti con il duro lavoro del confronto e della contrattazione collettiva.

Luigi Marelli

Luigi Marelli