Primo: ridateci i corridoi. Nelle case moderne, a caccia di spazio, sono praticamente scomparsi, assorbiti in cucinotti, secondi bagni, cabine armadio, punti tv. Invece sono diventati assolutamente indispensabili. Lo dimostra Alfonso Merlos, giornalista spagnolo, apparso a metà mattina, a inizio maggio, in collegamento da casa per l’ultimo servizio sul virus. Capelli impomatati, camicia bianchissima fresca di stiro con le iniziali sul petto, parlantina sicura. Mentre parla, sullo sfondo del salotto, dove una volta ci sarebbe stato un discreto corridoio, passa una flessuosa fanciulla, in abbigliamento molto intimo (parecchi commenti su Twitter sono stati assai più bruschi) che porta il vassoio della colazione dalla camera da letto alla cucina. Non aiuta che la ragazza non sia la compagna ufficiale del giornalista e, peraltro, anche che quella camicia fresca di stiro abbia iniziali che non sono A.M.. Un disastro, caro Alfonso. Ma ripetuto in piccolo all’infinito, in queste settimane, anche se di solito con risvolti meno piccanti, in videoconferenze travagliate da bebé in cerca delle mamma, gatti in astinenza di croccantini, cani all’inseguimento di una palla, mariti allarmati da pentole che bruciano.
Insomma, si fa presto a dire smart working. Anzi, per essere tecnicamente precisi, telelavoro, quello che si fa, appunto, da una postazione fissa in casa e non in giro per la città, come nel caso dello smart working. I requiem, in queste settimane, si sprecano, sull’onda delle rigide necessità della sicurezza anti-virus: gli uffici – e il tragitto per andarci – sono focolai perfetti per l’infezione. In California, comunque, Twitter ha invitato i suoi impiegati a lavorare da casa, “anche per sempre”. E sociologi ed ergonomi spiegano che è una evoluzione inevitabile. C’è già anche chi rimpiange l’ufficio che fu. “Ti dava – ha scritto Lucy Kellaway sul Financial Times – routine, orari, divertimenti, obiettivi, amici e un rifugio in tempi di tempesta”. Anche la possibilità di indossare due personalità, guardaroba compreso, un po’ diverse: una per la casa, una per il lavoro. E la via più diretta per sposarsi: niente di più facile che rimorchiare in ufficio, a condizione di sapere che, in caso di passioncella passeggera, ciò che resta può pesare all’infinito. E le chiacchiere intorno alla macchinetta del caffé? Rinsaldavano la lealtà verso l’azienda e il senso di comunità, ricordano gli psicologi. E aiutavano anche a capire il proprio posto nella gerarchia e le prospettive di carriera.
Sottovalutare l’importanza, in linea di principio, delle interazioni faccia a faccia sarebbe un errore. Ma buona parte di coloro che rimpiangono il buon tempo antico è, probabilmente, in pensione da qualche anno. La verità è che già oggi, la vita d’ufficio vuol dire quasi esclusivamente telefono e computer. Provate a chiedere ad un giornalista quante delle sue recenti interviste sono state fatte in persona, piuttosto che via telefonino. Il boom dell’open space, sacrificando la privacy ha trasferito anche i pettegolezzi con il vicino di scrivania sulle mail. E, nelle aziende più moderne, spesso sparpagliate in paesi e in fusi orari diversi, discutere via Zoom o Skype è, non da oggi, la norma, l’incontro in persona l’opzione estrema per situazioni eccezionali.
Probabilmente, ci abitueremo in fretta. Il telelavoro piace alle autorità pubbliche che vedono dissolversi ore di punta, assalti alle metropolitane, emissioni da auto. Ai lavoratori, che guadagnano il tempo perso da pendolari e si organizzano come meglio credono. Alle aziende, che hanno scoperto, come dimostra una recente ricerca tedesca, ma condotta in un’azienda del Nord Italia, che chi lavora da casa tende ad essere più produttivo. Tuttavia, ciò non basterebbe. A spingere in questa direzione è soprattutto una stringente logica economica. L’open space era stato inventato per risparmiare spazio. Tornare indietro, con le pareti divisorie e le distanze di sicurezza ad un metro almeno, significa raddoppiare o più la superficie utile degli uffici e, inevitabilmente, il loro costo. Per l’azienda, il primo comandamento del “lavoro agile” è immobiliare.
Ma, così, le aziende scaricano lo stesso problema immobiliare sui lavoratori. Toccherà ai sindacati definire nei contratti oneri e opportunità, limiti e opzioni del telelavoro. Ma il nodo immobiliare è al di là delle loro possibilità. Ce la fanno marito e moglie (anche lei, ormai, sempre più con un impiego e una carriera) a svolgere il loro telelavoro in contemporanea in due camere e cucina (per non parlare del corridoio)? Anche ipotizzando i bambini a scuola e nonna in una casa di riposo, il problema immobiliare, dannatamente costoso per l’azienda, per la famiglia è praticamente insolubile, tanto più in città, come quelle europee, dove lo spazio è la cosa che manca di più. Probabilmente, neanche le villette a schiera della Brianza hanno lo spazio giusto.
E, allora? Il telelavoro rischia di diventare la più clamorosa espressione di una profonda spaccatura di classe, fra ricchi e poveri, fra professionisti e no. Fra chi ha solo due camere e cucina e chi dispone di studio, salotto, stanza di sgombero, garage e sala fitness. Fra la coppia dove lei disegna al computer arredamento d’interni e lui fa analisi di borsa e la coppia in cui lui vende al telefono polizze di assicurazione e lei fa il customer service di un’azienda che consegna a domicilio acque minerali. Andare in ufficio diventerà il marchio dei poveri?
Maurizio Ricci