Agosto frizzante per Fca. E soprattutto, foriero di una guizzante crescita del valore di Borsa del titolo automobilistico che il primo settembre ha raggiunto, a piazza Affari, il livello di 13,34 euro, con un balzo all’insù di più del 50% rispetto a inizio anno, quando la singola azione valeva 8,6 euro. Una crescita, va detto subito, realizzatasi in gran parte proprio in quest’ultimo mese, nel corso del quale il valore del titolo è cresciuto del 31,4%.
Cosa può spiegare questa repentina corsa all’insù di un titolo che ha avuto i suoi alti e bassi, ma non è mai stato così brillante? Andando alla sostanza delle cose, hanno probabilmente ragione quegli analisti che, come sottolinea da tempo Paolo Griseri sulle pagine di Repubblica, hanno concentrato la loro attenzione su un aspetto, a loro avviso centrale, del piano industriale quinquennale varato da Sergio Marchionne nel maggio del 2014. Ovvero sull’obiettivo di azzerare progressivamente, e comunque entro la fine del 2018, il debito industriale che grava su Fca fin dai giorni della sua nascita, avvenuta nel 2009 con l’acquisto di Chrysler da parte della Fiat e poi formalizzata nel 2014.
Ora, a metà del corrente anno, tale obiettivo non è stato ovviamente ancora raggiunto. Ma, ecco il punto, nel corso di questo caldo agosto si sono prodotti degli avvenimenti che hanno reso visibile il fatto che l’obiettivo stesso era diventato credibilmente raggiungibile. E la borsa ha reagito positivamente non alla scoperta di dati che certo non erano ignoti, ma a un’immagine di Fca apparsa improvvisamente sotto una nuova luce, più allettante di quella sotto cui si era abituati a considerarla.
Tutto comincia lunedì 14 agosto, quando l’autorevole testata on line Automotive News scrive che sarebbero in corso da qualche tempo contatti fra case automobilistiche cinesi e Fca. Case fra cui viene citata, in particolare, la Great Wall Motors, i cui emissari sarebbero stati visti a Auburn Hills, nel Michigan, dove ha sede il quartier generale di Fca. Scopo degli incontri, valutare un possibile acquisto, da parte di Gwm, il più grande produttore cinese di Suv, dell’intera Fca o, quanto meno, del più appetibile dei suoi marchi, la Jeep.
Apriti cielo. A piazza Affari il titolo Fca scatta in avanti: + 8,15%, a 10,62 euro. E già che ci siamo, la crescita di Fca trascina all’insù anche i titoli di Exor, azionista di riferimento di Fca (+ 4,6%) e del gioiello automobilistico di casa Exor, la Ferrari (+ 2,98%).
Cosa è successo? Se Fca è appetibile per i cinesi, deve essere stato il ragionamento fatto in Borsa, sarà buona anche per noi. E giù a comprare. In altri termini, la notizie di ipotetiche trattative in corso per un eventuale acquisto di Fca da parte di acquirenti collocati nel Far East ha reso evidente che, ormai, il Ceo Sergio Marchionne ha fatto molti passi in avanti nella sua opera di abbattimento del debito gravante sulla stessa Fca e ha così fatto del gruppo automobilistico, per così dire, italo-americano un gruppo acquistabile da parte di chi desideri ingrandirsi nell’ambito di un mondo dell’automotive sempre più in subbuglio. O, almeno, questo è il modo in cui il fatto è interpretato da chi si muove fra Torino e Auburn Hills. Tanto che La Stampa del 15 agosto titola: “Fiat Chrysler fa gola ai cinesi”. E vai!
A stretto giro di posta, ovvero lo stesso 15 agosto, uno dei più grandi gruppi automobilistici cinesi, quel Geely che si è reso noto per aver acquistato dall’americana Ford, nel 2010, la svedese Volvo, smentisce, per quanto lo riguarda, qualsiasi intenzione di acquisire Fca. Ma non importa.
Il giorno dopo, 16 agosto, Fca sigla quello che appare come un importante accordo con la tedesca Bmw per studiare e sviluppare soluzioni rispetto a una problematica che sta diventando sempre più attuale, quelle delle auto a guida autonoma. Un accordo, questo, che appare particolarmente significativo perché in questo modo Fca ha raggiunto un’intesa con un’azienda automobilistica che, come Bmw, si è già portata avanti nel lavoro, avendo realizzato di recente un accordo di cooperazione con un’impresa del settore cosiddetto “tecnologico”, Intel, che, a sua volta, ha assorbito l’israeliana Mobileye, specializzata nelle mappe per la guida autonoma. Né va taciuto che all’alleanza tra Bmw e Intel si sono aggiunti, successivamente, anche due campioni della componentistica: la tedesca Continental e la britannica Delphi Automotive.
Insomma, andando oltre i limiti del pur interessante accordo raggiunto l’anno scorso con Google, con quest’ultima recentissima intesa Fca mostra di aver preso molto sul serio il problema delle auto a guida autonoma, entrando in un’alleanza di imprese che mette insieme competenze e risorse dell’automotive e del digitale, necessarie per affrontare una ricerca che sarebbe troppo complessa e troppo costosa per ogni singolo costruttore di automobili.
La notizia, quindi, c’è. E, da un lato, ci aiuta a capire quanto complessa stia diventando la questione delle alleanze che appaiono, peraltro, sempre più necessarie per poter fronteggiare le sfide che l’innovazione tecnologica pone in termini sempre più incessanti ed esigenti all’industria dell’auto. Dall’altro, mostra una indiscutibile coerenza nelle scelte di Marchionne che sostiene da tempo che, accanto al problema delle grandi alleanze (o fusioni) necessarie per sostenere gli investimenti che, a loro volta, sono richiesti da questa fase della storia dell’industria, possono essere molto utili anche alleanze plurime volte ad affrontare problematiche più circoscritte sul piano della ricerca e sviluppo o su quello della produzione di un singolo tipo di prodotto.
Ma torniamo alla nostra cronaca estiva. Lo stesso 16 agosto, sull’onda delle notizie “cinesi”, Fca va ancora avanti in Borsa, facendo un altro salto pari a un + 2,64%; salto che consente alle azioni della compagnia di raggiungere la quotazione di 10,90 euro.
Il lunedì successivo, 21 agosto, Automotive News torna alla carica, scrivendo che Great Wall Motors conferma le sue intenzioni: vogliono acquisire da Fca il marchio Jeep (stabilimenti compresi, ovviamente). Anzi, di più: secondo voci raccolte dal britannico Financial Times, Gwm progetta di acquisire l’intera Fca.
La quale ultima, a questo punto, ritiene evidentemente di non poter più restare zitta a godersi i vantaggi borsistici delle voci provenienti dalla Cina e, comunque, (ri)messe in circolo da varie testate di lingua inglese, e si sente anzi in dovere di chiarire al mercato come stanno le cose.
Fca emette quindi un comunicato in cui dice due cose: prima, non abbiamo ricevuto nessuna proposta da Great Wall Motors; seconda, proseguiamo nell’esecuzione del piano industriale 2014-2018.
A questo punto, anche Gwm deve dire come stanno le cose dal suo punto di vista. In una nota, conferma quindi il proprio interesse per Fca, ma precisa che non ci sono stati contatti di vertice con Auburn Hills. Martedì 22 i progressi di Fca a piazza Affari registrano dunque una frenata: solo un modesto + 0,26%. Però, dai e dai il titolo ha raggiunto la soglia di 11,47 euro. Rispetto al 14 agosto, siamo già a un +16%.
Il successo, come è noto, crea successo. Nel clima di euforia che circonda ormai qualsiasi discorso su Fca, si inserisce adesso l’agenzia americana Bloomberg. L’ipotesi formulata è che Fca si accinga a ripetere con Alfa Romeo e Maserati l’operazione già portata felicemente in porto con Ferrari a inizio 2016: uno spin-off utile per estrarre il massimo del valore da marchi che, finché rimangono all’interno del guscio Fca, non possono esprimere il proprio intero potenziale.
Il 23 agosto il titolo Fca schizza ancora all’insù. A Wall Street cresce più del 6%, superando i 13 dollari; a piazza Affari supera i 12 euro, mettendo a segno una crescita del 5,75%.
Ora crescere in Borsa è una bella cosa, ma in Fca qualcuno deve aver pensato che una salita repentina può essere controproducente se basata su ipotesi non coerenti con le scelte strategiche dell’azienda. Viene quindi fatta circolare una specie di precisazione informale da cui si ricava che, per adesso, il cosiddetto “polo del lusso”, formato da Alfa Romeo e Maserati, non è alle viste. Discorso diverso per le aziende, interne al Gruppo, che non producono auto ma componentistica, in senso lato intesa: Magneti Marelli, Comau, Teksid. Anche per queste aziende, insomma, dovrebbe essere valido lo stesso schema di ragionamento che abbiamo appena visto per Alfa e Maserati. Il loro spin-off potrebbe avere un duplice effetto vantaggioso. Da un lato, far entrare dentro Fca risorse finanziarie fresche, utili per accelerare l’abbattimento del debito industriale. Dall’altro, far crescere il valore di questi gioielli tecnologici una volta usciti dall’involucro Fca.
Il 24 agosto La Stampa titola: “Fca prepara lo scorporo di Marelli. Sarà entro la fine dell’anno”. Sottotitolo: “In futuro Fiat Chrysler studierà la separazione di Maserati e Alfa Romeo”. Tutto chiaro, dunque. La Borsa approva, anzi, si entusiasma. A fine giornata, il titolo Fca ha messo a segno un altro rialzo, + 2, 97%, raggiungendo quota 12,49 euro, ovvero il suo massimo storico. In due settimane scarse, e cioè dall’11 agosto, il titolo è salito del 24%.
Ma il bello deve ancora venire. E non tanto perché, lo stesso 24 agosto, l’agenzia Dow Jones e il Wall Street Journal informano i loro lettori di una possibile alleanza tra Fiat Chrysler e Volkswagen nella produzione di veicoli commerciali leggeri. Fatto che, di per sé, sarebbe tutt’altro che irrilevante e potrebbe, anzi, apparire foriero di sviluppi oggi impensabili. Quanto perché in questa complessa vicenda, sin qui tutta giocata nel rapporto tra informazione e reazioni di Borsa, le valutazioni delle banche d’affari e delle agenzie di rating cominciano a prendere il posto delle indiscrezioni giornalistiche. Lo stesso giovedì 24, Morgan Stanley ipotizza infatti che la valutazione del titolo Fca possa salire tranquillamente a 15 euro per azione.
Passa una settimana, ed ecco che venerdì 1° settembre Standard & Poor’s migliora l’outlook, ovvero la valutazione sintetica delle prospettive aziendali, di Fca da “stabile” a “positivo”, confermando il rating del gruppo a BB. Salvo ad aggiungere che, per conseguenza del miglioramento dell’outlook, non è escluso che nei prossimi 12 mesi anche il rating possa salire a BB+. E tutto ciò perché la stessa Fca “sta facendo buoni progressi nell’aumentare la sua redditività operativa in tutti i segmenti”. Il giorno prima Goldman Sachs ha alzato la sua valutazione del cosiddetto prezzo-obiettivo delle azioni Fca.
La Borsa non se lo fa ripetere due volte. Il titolo del gruppo automobilistico sale di un altro 5,45%, raggiungendo una quota pari a 13,34 euro per azione. Se si considera cha al 31 dicembre 2016 il valore della singola azione era pari a 8,6 euro, si vede subito che nel corso dei primi otto mesi (più un giorno) del 2017 tale valore è cresciuto di più del 50%. La capitalizzazione di borsa di Fca ha raggiunto, e superato, i 20 miliardi di euro.
Sabato 2 settembre a Monza piove. Condizioni atmosferiche negative, che quasi preannunciano il risultato del Gran Premio che si correrà domenica 3 e porterà una cocente delusione ai tifosi della Rossa.
Marchionne è qui in quanto presidente della Ferrari e risponde alle domande dei giornalisti, che lo interrogano, però, su Fca, di cui è amministratore delegato. Il suo pensiero può essere riassunto in tre punti. Primo: alle viste non c’è nessun big deal, nessuna trattativa in corso che possa portare a un grande accordo tra Fca e qualche altro grande costruttore. Non è quindi arrivata nessuna offerta, neanche da costruttori cinesi. Secondo: Fca deve essere “purificata” dalle aziende dedite alla componentistica. E speriamo di poterlo fare entro il 2018. Terzo: qualsiasi progetto di scorporo di Alfa Romeo e Maserati, al momento, è assolutamente immaturo. Vedremo in seguito.
Ma allora, tanto rumore per nulla? In realtà, no. Perché in questo agosto di passione per Fca e per il mondo dell’auto sono successe diverse cose vere, molto più concrete delle voci raccolte e rilanciate, a metà mese, da Automotive News.
La prima è che due banche d’affari e un’agenzia di rating di primaria grandezza hanno riconosciuto che nella Fca di Marchionne, da un lato, cresce la redditività, mentre, dall’altro, decresce il debito. Tutto ciò comporta due conseguenze reali. In primo luogo, come si è visto, un incremento del valore della singola azione e quindi della capitalizzazione di Borsa del Gruppo. In secondo luogo, una crescita delle convenienze per qualsiasi grande gruppo che, in un futuro più o meno prossimo, intendesse costruire una grande alleanza con Fca o fondersi con essa, assumendone il controllo.
Tutta la storia fatta di indiscrezioni giornalistiche e sussulti borsistici che vi abbiamo fin qui raccontato, da un lato, è cronaca; dall’altro è stata qualcosa di simile alla teatralizzazione di un processo reale in corso che ha consentito alla Borsa di reagire rapidamente agli sviluppi di tale processo, aiutandolo a svilupparsi ulteriormente.
Ci si potrà allora chiedere: qual è questo processo? A occhio e croce, siamo di fronte all’assunzione via via più precisa, da parte di Fca, del ruolo di costruttore globale di autovetture votato al cosiddetto mass market, il mercato di massa. Che però, oggi, è molto più esigente di quanto non fosse un tempo. Via dunque il lusso (ieri Ferrari, domani Alfa Romeo e Maserati), ma via anche la componentistica. Che resteranno però, a quel che si comprende, nell’orbita di Exor, e quindi della famigli Agnelli, oggi guidata da John Elkann. Insieme, non dimentichiamolo, a Cnhi.
Un costruttore di auto che, peraltro, punta più alla redditività, e quindi alla qualità del prodotto, che non alla quantità dei pezzi prodotti. E cerca alleanze in base alla convinzione che le dimensioni raggiunte, pur dopo la fusione tra Fiat e Chrysler, non siano sufficienti per le esigenze poste da una fase storica di forte innovazione tecnologica e trasformazione funzionale; fase in cui dal prodotto auto si sta passando al servizio mobilità.
Di qui l’esigenza immediata di tessere, intanto, tutte quelle alleanze di scopo che Fca ha intrecciato anche in questo caldo agosto e sta continuando a intrecciare. Perché in attesa del big deal, non è che si possa stare fermi. Anche se, va detto, al momento non è chiaro quale impatto possano avere questi movimenti sui futuri assetti degli stabilimenti collocati in Italia.
C’è poi un’ultima considerazione che qui va fatta. Relativa ai cinesi. Già, i cinesi. Perché una cosa è sicura. Questo caldo agosto dell’auto ha cambiato l’idea che molti di noi avevano della Cina. Abbiamo cominciato a capire che la Cina non è più, o almeno non è più solo, la cosiddetta “fabbrica del mondo”, ovvero una sterminata distesa di immensi capannoni in cui migliaia, ma che dico, milioni di operai mal pagati producono componenti e assemblano prodotti che poi andranno in giro per il mondo facendosi belli di marchi, a vario titolo, occidentali.
No, oggi la parte più povera della componentistica meccanica, vecchia e nuova, come del tessile e di altri comparti, è emigrata altrove, in vari paesi del Sud-Est asiatico. In Cina, il capitalismo di Stato del dopo-Teng ha scelto di puntare tutto sulla costruzione di nuovi soggetti dell’attività economica: le imprese. Grandi imprese copiate dal modello occidentale per ciò che riguarda il loro rapporto col mercato (non certo per ciò che riguarda il loro rapporto con i propri dipendenti, né quello con l’ambiente circostante).
Ma anche se non ci sono i sindacati, la programmazione social-capitalista ha puntato, da qualche anno a questa parte, sulla crescita del reddito medio dei cinesi. E dunque anche sulla loro capacità di consumare. Abbiamo così anche cominciato a capire che la Cina sta diventando il più grande mercato di consumo del prodotto auto e diventerà il più grande produttore di autovetture.
Abbiamo scoperto che, anche in Cina, esistono grandi costruttori, come Geely, quello che ha comprato Volvo da Ford nel 2010, come Great Wall Motors, protagonista dei rumors di questa estate, come Dongfeng o come Gac (Guangzhou Automobile Group Co.), il costruttore che già realizza la Jeep in joint venture.
Nel prossimo autunno si terrà il Congresso del Partito Comunista cinese. Al centro del dibattito ci saranno sicuramente i temi della politica economica. Temi che ruoteranno attorno al dilemma: ancora sviluppo, rischiando un’espansione non governabile del debito, e quindi l’esplosione di una crisi nata a Est, o contenimento del debito, rischiando una contrazione della produzione e dei consumi? Non sappiamo quale risposta potrà trovare Xi Jinping, l’uomo che assomma in sé le cariche di Presidente della Repubblica e di Segretario generale del Partito comunista. Ma intanto, quest’estate, ha forse dato una mano anche lui a farci capire che il suo paese è ormai uno dei grandi della Terra che può discutere con chiunque, come minimo da pari a pari, di qualsiasi questione. Anche del futuro dell’industria dell’auto.