Ciò che m’interessa proporre, nei miei interventi, è una riflessione sulla mentalità che si è ormai imposta ed è diffusa nel nostro paese. Parlare di “mentalità” significa mettere in luce modi di pensare che, in maniera per lo più implicita, orientano i nostri comportamenti e sono condivisi dalle nostre comunità. Voglio approfondire, in particolare, com’è cambiata la nostra mentalità riguardo al lavoro.
L’Italia, si sa, è una Repubblica che sul lavoro è fondata. Nell’ottica dei padri costituenti il lavoro è ciò che permette all’essere umano di realizzarsi, di contribuire allo sviluppo della società, di costruire qualcosa di nuovo insieme agli altri. Naturalmente deve trattarsi di un lavoro soddisfacente, non alienante, giustamente retribuito. E tante lotte sono state compiute in passato per raggiungere questi risultati.
Hannah Arendt, nel suo The Human Condition (tradotto in italiano con Vita Activa), distingue tra “labour”, “work” e “action”. In sintesi, “labour” è il lavoro che serve al soddisfacimento di bisogni primari, che si svolge in maniera meccanica e ripetitiva, e i cui frutti sono velocemente consumati, attivando nuovi cicli produttivi. “Work” è il processo finalizzato alla produzione di determinati oggetti, non necessariamente indispensabili, che rendono però più agevole la vita nel mondo che abitiamo. “Action” è l’azione che compiamo anche al di fuori di una logica produttiva, anche senza giungere a un risultato tangibile: come quando, ad esempio, vediamo un film per il piacere di vederlo.
La distinzione di Arendt è la ripresa di categorie che erano state elaborate già nel mondo antico e che per secoli avevano plasmato la nostra mentalità riguardo a ciò che voleva dire “lavorare”. Soprattutto nell’ultimo secolo, però, le cose sono cambiate. Il lavoro ai fini del sostentamento si è in buona parte meccanizzato. Nella società dei consumi non si lavora per soddisfare bisogni, ma per appagare desideri: che tuttavia, nella realtà, non potranno mai essere pienamente soddisfatti. In questa logica di produzione continua ogni azione pare finalizzata al raggiungimento di un obbiettivo. La possibilità di un agire fine a sé stesso, che si appaga nella sua stessa realizzazione, sembra scomparsa.
Oggi però, come ben sappiamo, la situazione lavorativa è ulteriormente mutata. Il lavoro si è fatto precario. L’intera produzione si sta progressivamente automatizzando. L’essere umano, certo, resta al centro come consumatore. Ma, se non produce, non guadagna e non può comprare. Assistiamo così a un ulteriore cambiamento nei modi di pensare. Da una parte, per chi se lo può permettere, si ripropone l’idea dell’acquisizione, dell’accumulo, del consumo infinito. Dall’altra, per chi non lavora – o non riesce a lavorare -, si ripresenta la possibilità, questa volta forzata, dell’ozio: di un agire che trova in sé stesso il proprio sbocco. Il divano, al posto dell’ufficio o della fabbrica, diventa il simbolo di questa situazione.
Ciò è dovuto anche a quell’economia del sussidio che in alcune zone, e in certi strati della popolazione italiana, si è ormai imposta: a seguito della crisi economica, aggravata oggi dalle conseguenze della pandemia. I consumi, in quest’ottica, sono ridimensionati e quindi lo è, anche, la ripresa della produzione. L’unico modo per uscire da questo circolo vizioso è aumentare gli aiuti a chi non ce la fa. Ma per farlo bisogna chiedere aiuto ad altri. L’Italia, da Repubblica fondata sul lavoro, rischia di trasformarsi definitivamente in un paese basato sul debito.
Assistiamo insomma, oggi, a una vera e propria rivoluzione nella mentalità. Il lavoro non è più inteso come un modo per realizzarsi, per esprimere le proprie capacità, per contribuire alla crescita sociale. Chi lo intende ancora in questo modo è costretto molto spesso a emigrare, non trovando nel nostro paese riconoscimento per le sue aspirazioni. La mentalità del sussidio sta prendendo il sopravvento. Più ancora. Si sta imponendo l’idea che chi lavora è un privilegiato e, perciò, deve pagare per tutti: per chi non lavora, per chi non vuole o non può lavorare, per chi ha finito per tempo di lavorare e si sta godendo una lunga pensione.
Il brutto è che questa situazione non viene affatto affrontata: soprattutto a livello di quella mentalità comune sulla quale sarebbe possibile incidere per un cambio di rotta. Non lo fanno le agenzie che a ciò sarebbero deputate – il sistema dell’istruzione e quello dei media, ad esempio – perché hanno altro a cui pensare e da tempo fanno altro. Una cosa comunque è certa. Se si continua con la mentalità del sussidio, prima o poi i soldi finiranno. E non è detto che vi sarà sempre qualcuno che continuerà a farci credito.
Adriano Fabris