La vicenda della Whirlpool è finita nel modo peggiore. Chiude lo stabilimento di Napoli, 400 persone fuori dalla fabbrica, molte di più, quelli che lavorano per l’indotto, anche loro senza un lavoro. E a Napoli tante prospettive di reimpiego non ci sono. Ma era scritto che finisse così? Lo stabilimento era vecchio e fuori mercato, con una produttività molto bassa. Fino a quando il mercato tirava si poteva sperare di riuscire in qualche modo a tenere in piedi la fabbrica, quando le prospettive del mercato sono calate non c’è stato nulla da fare. Whirlpool è una multinazionale, non si ferma davanti ai problemi umani, se necessario cambia strategia, disloca. La decisione finale di chiudere lo stabilimento napoletano con tutta probabilità è stata presa negli Stati Uniti. Nella loro logica c’è poco spazio per i sentimenti, contano solo le cifre.
Il che non significa che non esistano altre logiche. Qualche anno fa Electrolux, un’altra grande azienda che fabbrica elettrodomestici, si trovò in una situazione più o meno analoga. Si doveva spostare una produzione in Polonia: in quel paese un operaio costava 7 euro l’ora, in Italia costava 26 euro. Non sembrava ci fossero dei margini per evitare la dislocazione. Eppure, alla fine non c’è stata. Grazie a un abile lavoro, delle autorità amministrative locali, dei sindacati, dell’azienda, alla fine si è deciso di restare e di ristrutturare lo stabilimento. Che adesso funziona benissimo, ha recuperato produttività, non dà pensieri.
Allora forse è possibile pensare un’altra maniera per gestire queste crisi aziendali. Perché il sistema che hanno seguito con la Whirlpool prima il ministro Di Maio, poi il suo successore Patuanelli, infine il premier Conte, evidentemente non porta risultati. Anche gli accordi, come quello di un anno fa con l’azienda, non servono a nulla o non sono sufficienti. Il diario del lavoro, proprio nella mattina in cui la vicenda Whirlpool consumava l’ultimo atto a Palazzo Chigi, il 15 ottobre, ha tenuto nella sede del Cnel un interessante seminario proprio per discutere di come gestire le crisi aziendali, quale sia la struttura più opportuna, in grado, quanto meno, di ridurre l’abnorme numero di aziende in crisi che fanno la fila al ministero dello Sviluppo economico per cercare una via di uscita dai loro guai. Un discorso difficile, dal quale, con l’aiuto di rappresentanti di grandi aziende, sindacalisti, qualche giuslavorista, sono venute fuori alcune verità. La prima è che l’Italia è carente perché non si fa in alcun modo azione di prevenzione delle crisi delle imprese. Crisi che non nascono all’improvviso, un’azienda non va in default dalla mattina alla sera. Ma allora le situazioni di difficoltà dovrebbero essere monitorate, seguite, se possibile anticipate, per intervenire al momento opportuno a raddrizzare quello che non funziona, invece di arrivare all’ultimo minuto quando i licenziamenti sono stati già decisi. Non è facile, ma nemmeno impossibile. Serve dedizione, attenzione, professionalità. Che non sempre, però, sono a disposizione.
Poi va fatta chiarezza anche sul luogo dove cercare le soluzioni. Una volta queste crisi arrivavano tutte al ministero del Lavoro, era lì che si cercava una soluzione. Siccome non c’era stata prevenzione, si cominciava a discutere quando il ballo c’erano già i licenziamenti. Quindi qualsiasi rimedio possibile era solo di tipo assistenzialistico. Ed era quindi naturale che se ne discutesse al ministero del Lavoro, soggetto deputato a gestire gli ammortizzatori sociali, cassa integrazione, prepensionamenti o quant’altro. Poi si è pensato che fosse meglio discuterne al Mise, per cercare eventuali alternative industriali. In questo ministero però mancavano le competenze e allora si trovò una soluzione a metà: una struttura (che fu poi affidata a Giampiero Castano, uomo con una grande esperienza e inesauribili capacità) dentro il ministero, ma sganciata dalla logica ministeriale. Questo sistema ha funzionato bene per anni, proprio grazie alla professionalità di Castano, ma il Conte I ha deciso di fare un passo indietro, ed e’ tornato ad affidare la guida di questa struttura alla burocrazia ministeriale; è tornato sostanzialmente all’assistenzialismo, con i guasti che abbiamo visto.
Ma tutto questo è accaduto proprio perché non si è ancora scelto come aggredire queste crisi, non si è deciso quale sia l’ottica giusta per intervenire, se debba prevalere l’ottica occupazionale o quella industriale. È chiaro che se non c’è prevenzione il problema più importante è quello occupazionale, ma una regia accorta deve essere in grado di andare oltre, serve qualcuno che guardi alla reindustrializzazione di un’area, quella colpita dalla crisi. Compito peraltro assai complesso. Perché trovare soluzioni industriali valide non è facile, a volte forse è impossibile. Per diverse ragioni, ma soprattutto perché non ci sono le strutture adatte, capaci di trovare le alternative necessarie. Il Mise si rivolge per lo più a Invitalia, ma non risulta che le soluzioni offerte da questa struttura siano state davvero positive, sono troppi i casi in cui non si è trovata soluzione o che quella individuata poi non ha funzionato. Certamente ha pesato l’inesistenza di una forte imprenditorialità nel nostro paese. Una volta erano tanti gli imprenditori forti e capaci, grandi, piccoli e piccolissimi che si inventavano ogni giorno il loro business. Poi questi sono invecchiati e il cambio generazionale non è stato generoso. Come dimenticare che i figli di Vittorio Merloni hanno venduto i loro stabilimenti di quella che era la gloriosa Indesit di Fabriano proprio alla Whirlpool?
Mancano imprenditori, ma manca soprattutto una mentalità adeguata presso le istituzioni. Diciamo sempre che non si fa più politica industriale dagli anni 70, ed è la verità. Fa tenerezza leggere, nei resoconti dei quotidiani sulla manovra economica, che il capitolo degli incentivi industriali si regge tuttora sulla vecchia Sabatini, anche se adesso si chiama Nuova Sabatini. Ma davvero non siamo stati in grado di inventarci in quarant’anni qualcosa di più sofisticato che dare un aiuto a chi compra macchinari? È questo il massimo di politica industriale che il governo italiano è in grado di sviluppare? Pare davvero un po’ poco. Poi è inutile lamentarci che tutto il mondo quest’anno cresce del 3% mentre in Italia la crescita è dello 0%, la peggiore performance in Europa. Serve una mentalità diversa. Serve fantasia, coraggio, dedizione. Le parti sociali hanno mostrato di possedere queste doti e in tanta parte la contrattazione è stata in grado di supplire a queste difficoltà. Con un sindacato che si è speso generosamente e con intelligenza. Ma non si sana tutto con la contrattazione. È lo Stato che deve essere presente e agire con responsabilità. Altrimenti siamo al default. Sull’orlo del precipizio, con la tentazione di fare un passo in avanti.
Massimo Mascini
Per i nostri lettori pubblichiamo qui di seguito una scelta delle notizie e degli interventi più significativi apparsi nel corso della settimana su ildiariodellavoro.it (Vai al sito per leggere il giornale completo, aggiornato quotidianamente dalla nostra redazione).
Seminari
Il diario del lavoro ha organizzato, presso il Cnel, il seminario “Quale cabina di regia per gestire le crisi aziendali?”, al quale hanno partecipato esponenti delle grandi imprese, sociologi, giuristi, sindacalisti e rappresentanti dell’associazionismo imprenditoriale.
Contrattazione
Questa settimana è stato sottoscritto il contratto nazionale delle agenzie per il lavoro. L’intesa contratto qualifica ulteriormente la somministrazione di lavoro come forma di flessibilità capace di soddisfare le esigenze delle imprese implementando al contempo le tutele e l’employability delle persone. Tra le novità più rilevanti emergono il diritto mirato alla formazione con misure e risorse dedicate. Introdotte, inoltre, le ferie solidali.
La nota
Fernando Liuzzi prosegue nel suo racconto dello scontro tra il sindacato statunitense United Automobile Workers e la General Motors. A quasi un mese dall’inizio dello sciopero, le trattative per il nuovo accordo nazionale di gruppo sembrano essere sempre più lontane da una conclusione positiva. Sempre Liuzzi fa il punto sul primo tavolo aperto al Mise dedicato al settore dell’auto, dove il ministro Patuanelli ha invitato oltre 40 sigle.
Nicolò Montesi, portavoce del movimento dei “rider veri” con una lettera risponde al Diario del lavoro, che aveva dedicato la newsletter della scorsa settimana alla questione dei rider che protestano contro il decreto del governo, richiamandosi in particolare alla storia di Montesi.
Interviste
Tommaso Nutarelli ha intervistato Rosario Rappa, segretario generale della Fiom di Napoli, per fare il punto sulla situazione dello stabilimento del capoluogo partenopeo di Whirlpool.
Il guardiano del faro
Marco Cianca parla di Papa Francesco, leader carismatico e trasversale, amato dalla sinistra e inviso dell’ala più conservatrice della Chiesa.
Il diario della crisi
I sindacati di categoria dei pensionati sono pronti alla mobilitazione per il prossimo 16 novembre a Roma, se dal governo non dovessero arrivare risposte soddisfacenti nella manovra. In sciopero i lavoratori somministrati presso il Contact Center di Teleperformance per vedere riconosciuti i propri diritti in materia di ferie, permessi e turni di lavoro. I lavoratori di DNG hanno proclamato lo stato di agitazione contro i licenziamenti annunciati dall’azienda dopo il blocco della trattativa per il rinnovo dell’appalto con Mediaset.
Documentazione
Questa settimana è possibile consultare i dati dell’Istat sul fatturato e gli ordinativi nell’industria, le stime del commercio con l’estero e i prezzi all’import e la produzione nelle costruzioni. Infine è presente il testo del rinnovo del contratto collettivo delle agenzie per il lavoro e il bollettino economico n°4 di Bankitalia.