Oro alla patria. Chissà se c’è stata l’immagine degli italiani che portano le fedi nuziali all’ammasso per rimpolpare la lira di Mussolini dietro la decisione dei parlamentari postfascisti di presentare un emendamento alla manovra di bilancio sull’oro nazionale. Qui, tuttavia, l’oro della gente non c’entra. Si tratta dei lingotti della Banca d’Italia, già, dunque, di proprietà pubblica, che non cessano di suscitare gli appetiti politici dell’Italia di destra, che stia al governo o no. Ci ha provato nel 2014, poi nel 2018 (il governo giallo-verde di Conte) e ancora adesso. Di solito è un’idea della Lega, ma non stupisce che sia ripresa, oggi, dai vertici parlamentari di Fratelli d’Italia: l’emendamento che rivendica la proprietà dello Stato italiano sui lingotti custoditi dalla Banca d’Italia (peraltro nei forzieri americani) non è stato presentato, infatti, da un senatore qualsiasi, ma dal capogruppo al Senato. Le possibilità che l’emendamento produca qualche conseguenza, tuttavia, sono zero, come sa, probabilmente, benissimo anche Lucio Malan, il capogruppo meloniano. Ma anche questo non è casuale.
Si tratta, in effetti, di un mucchio di soldi. Circa 200 miliardi di euro ai prezzi di fine 2024, ma oggi, con la corsa al rialzo dell’oro, il valore è più vicino ai 275 miliardi. Un valore teorico, peraltro: provate a venderne anche solo un paio di miliardi e il mercato impazzirebbe. Ma potrebbero essere utilizzati come garanzia, ad esempio, di manovre sul debito pubblico. Questa era l’idea, nel 2014 e nel 2018, quando si trattava di liberare risorse per difendere i titoli del Tesoro dalla speculazione o per aprire spazi alla spesa pubblica.
Oggi, ha più l’aria di una dichiarazione di principio. Destinata consapevolmente a rimanere sulla carta. Perché i trattati europei, è stato più volte chiarito, dicono un’altra cosa. Che l’oro viene, non solo gestito, ma anche “detenuto” da Via Nazionale, nel quadro della sua autonomia e indipendenza dallo Stato. Anche perché quell’oro sta dentro il circuito della Bce e dei suoi rapporti con le banche nazionali, come riserva dell’euro (e non della lira). E’ già stato detto ufficialmente (non ultimo da Mario Draghi) e, se mai l’emendamento passasse, interverrebbe la Commissione a segnalare il conflitto con la giurisdizione europea. Punto e basta.
E, allora, perché parlarne? Lo scopo reale, probabilmente, non va al di là della pura propaganda. Si tratta di rimestare nella vena nazionalista di una parte dell’opinione pubblica, contigua ai partiti di maggioranza. Qualcosa del tipo: “avremmo tutto questo oro, ma non ce lo lasciano usare”. Nulla succederà, salvo accumulare qualche credito per le prossime campagne elettorali. Ma il segnale politico c’è ed è importante: i vertici del partito di maggioranza esibiscono ai propri elettori, reali e potenziali, l’ennesima picconata all’edificio europeo, ai suoi valori, ai suoi meccanismi, proprio in un momento in cui già traballano.
Tira aria brutta per l’Europa, in particolare per l’Europa immaginata dai padri fondatori nel secolo scorso. Fra lo strapotere americano e quello cinese, il suo ruolo nel mondo continua a rimpicciolirsi e il messaggio di comunità, solidarietà che la Ue trasmetteva suona sempre più a vuoto. Anche perché c’è sempre meno convinzione nel trasmetterlo. L’evento politico dell’anno, nella politica europea, è stato il voto convergente sui temi ambientali, al Parlamento di Strasburgo, dei popolari con le forze di destra, rompendo la tradizionale alleanza con i socialisti. Si è, cioè, bloccato l’asse storico su cui si basa tutta la costruzione europea: l’incontro fra le forze conservatrici, con radici religiose e contadine (pensate alla Cdu di Angela Merkel), con quelle socialiste, laiche ed urbane (pensate ai socialisti di Jacques Delors). Su quell’incontro si fonda il modello sociale europeo (welfare, dialogo imprese-sindacati) che ci ha accompagnato in questi decenni.
Difficile che quella convergenza resti un episodio isolato e lo sbocco non può che essere una leadership europea più sensibile agli interessi nazionali e più rispettosa delle direttive delle capitali. L’oro alla patria è una bandierina in più su questo scenario. E un passettino sulla strada dell’Europa che piacerebbe a Donald Trump.
Maurizio Ricci

























